La Stampa, 3 novembre 2023
Senza i gatti non esisterebbe nemmeno la letteratura
Facile, fare dell’ironia o peggio su Hiro, il gatto di Nino Frassica (cioè, il gatto di cui Frassica è l’umano), scomparso a Spoleto durante le riprese di “Don Matteo”, forse sequestrato dai provvisori vicini di casa dell’attore, con tutto il corollario di commozione & mobilitazione social, della ricompensa di 5 mila euro per chi lo ritrovasse, poi tolta, rimessa e anzi raddoppiata, e sulle lacrime della figlia della moglie dell’attore e, in generale, di tutta la famiglia.
Facile ma stupido. Solo chi è ospite del suo gatto sa cosa sia l’angoscia quando il vero padrone di casa non si fa più vedere. Come quando un figlio piccolo sparisce al supermercato o in spiaggia, anzi peggio perché il gatto è incomparabilmente meglio di un figlio (e non rompe come lui: non va male a scuola, non vive un’adolescenza difficile, non insiste per sposare la persona sbagliata). Confessatelo, confessiamolo: quante volte ci siamo aggirati per casa agitando il sacchetto dei croccantini e facendo strani versi perché il Dio baffuto non dava segni di vita, sempre più stravolti mentre le ore passavano e le ipotesi diventavano più stravaganti: scappato dalla finestra nonostante fosse chiusa, intrappolato in qualche pertugio, rapito dagli alieni. E che sollievo quando poi si scopre che si era autosegregato nell’armadio per fare uno dei trecento pisolini quotidiani in santa pace gattesca e, con l’occasione, per disseminare un po’ di peli bianchi sui golf ovviamente scuri (un gatto di gusto – e non esistono gatti che lo abbiano cattivo – lascerà sempre le sue tracce dove si notano di più, o dove non sono cancellabili).
Noi gattolici credenti e praticanti siamo così. E poco importa che il gatto abbia più vite di quante possa sacrificarne, e riesca quasi sempre a sopravvivere quando qualche stupido umano lo mette nei guai. Come Oscar, ribattezzato “Sam unsinkable”, Sam l’inaffondabile, dai marinai inglesi durante la Seconda guerra mondiale per essersi salvato da ben tre affondamenti: quello della corazzata tedesca Bismarck (sì, all’inizio Oscar combatteva con il nemico), del cacciatorpediniere Cossack e infine della portaerei Ark Royal. Le navi colavano a picco, ma lui trovava sempre qualche rottame su cui galleggiare fino all’immancabile salvataggio: praticamente una metafora della naturale superiorità del gatto su quel bipede rozzo e violento che è l’uomo (Oscar andò poi in pensione in un ospizio della Royal Navy a Belfast dove nel 1955 morì nel suo letto, o meglio nel letto di qualche veterano). Quanto a Félicette, una gattina nera e bianca nata a Parigi, nel 1963 fu spedita nello spazio sul razzo-sonda francese Véronique, ed è quindi al momento l’unico gatto astronauta della storia. Atterrò dieci minuti e 36 secondi dopo, senza aver fatto un plissé. E mamma gatta Scarlett? Diventò l’idolo dei pompieri di New York nel 1996 quando, durante un terribile incendio in uno stabile di Brooklyn, entrò e uscì dalle fiamme per cinque volte, tante quante i suoi piccoli, tutti portati in salvo senza una scottatura.
Forse anche per questa capacità di sopravvivere il gatto piace a quegli specialisti del galleggiamento che sono i politici. Il cardinale gattolico Richelieu ne aveva quattordici, dai nomi bizzarri come Lucifer, Ludovic-le-cruel, Ludoviska (di origine polacca), Gazette, Mounard-le-fougueux (il focoso), Serpolet, Félimare, Pyrame e Thisbé (perché inseparabili) e così via. Morendo, lasciò una somma per il loro mantenimento. Alla Casa Bianca, Abramo Lincoln viveva con Tabby e Dixie, e di quest’ultima diceva che era più intelligente di tutti i suoi ministri. Churchill vinse la guerra grazie ai consigli strategici del “cabinet cat” Nelson (nomen omen), e a Stoccolma ti mostrano delle lettere di Carlo XII, poi sconfitto da Pietro il Grande e biografato da Voltaire, che sembrano scritte tutt’intorno alla sagoma di un micio: il gatto si stendeva sul foglio (come adesso sulla tastiera del computer) e il Re per non disturbarlo gli scriveva “intorno”.
Eh, sì: il gatto piace alla gente che piace. Infatti, come sappiamo, senza gatti in pratica non esisterebbe la letteratura. C’è una lettera in cui Petrarca parla a Boccaccio della sua micia Dulcina. E poi fra Dickens, Keats, Hemingway, Baudelaire, Bukowski, Bulgakov, Hoffmann, Poe, Kipling, Montaigne, Flaiano, Sepulveda, Lessing, Murakami, Lessing, Dahl, Borges, Morante è un elenco (parziale) da fare le fusa. All’incrocio fra potere e arte, la strana storia di Micetto, il gatto di Leone XII, che dava udienza tenendolo in grembo. Quando il papa morì, nel 1829, ci fu un po’ di imbarazzo nei sacri palazzi, perché la figura del gatto pontificio non è contemplata dal protocollo vaticano. Che farne? Per fortuna l’ambasciatore di Francia era gattolico, oltre che cattolicissimo in quanto autore del Génie du Christianisme. E così Micetto fu affidato a Chateaubriand, che alla fine della missione romana se lo portò a Parigi. E gli dedicò una pagina dei Mémoirs d’outre-tombe nel quale fa dei romanticismi sul povero Micetto, al quale nella grisaille parigina si cerca «di far dimenticare l’esilio, la Cappella Sistina e il sole della cupola di Michelangelo sulla quale passeggiava, lontano dalla terra». Micetto, lui, sopravvisse benissimo al trauma del trasloco e anche a Parigi, immaginiamo, stava da papa. Forza Hiro.