Avvenire, 2 novembre 2023
Quando l’addio fa male la scrittura è la medicina
La questione della teodicea, la possibilità di conciliare l’esistenza di un Dio onnipotente e buono con il male del mondo, i tanti mali fisici e morali che ci affliggono, quando la morte ci colpisce sembra solo un gioco intellettuale e non ci aiuta più di tanto. Il celebre scrittore Clive S. Lewis, che pubblicò nel 1940 il saggio The problem of Pain, vent’anni dopo toccò sulla propria pelle la violenza del dolore per la perdita della moglie amatissima. L’urto della morte l’avrebbe raccontato in un libretto, Diario di un dolore,
pubblicato nel 1961 (in Italia uscì da Adelphi nel 1990), in cui il grande autore cristiano si mette a nudo e con durezza descrive la propria reazione dinanzi a un evento per lui lancinante come non mai, tale da scuotere la sua fede. L’autore delle famose Lettere di Berlicche, docente di letteratura inglese e medievista, scrittore anche di fantascienza (a lui si devono le Cronache di Narnia), convertito dall’ateismo al cristianesimo anglicano e da allora fervido apologeta, si rivela davvero inconsolabile giungendo come Giobbe a sfidare Dio. Capace di scrivere frasi come: «Persone di buon cuore mi hanno detto: “È con Dio”. Almeno in un certo senso, questo è certissimo. Essa è, come Dio, incomprensibile e inimmaginabile»; oppure di porsi domande ardite, quasi blasfeme, quali: «È razionale credere in un Dio cattivo? O comunque, in un Dio tanto cattivo? Il Sadico Cosmico, l’idiota malevolo?»; e ancora: «Abbiamo Cristo, ma se si fosse sbagliato?». La sua fede è insomma messa a dura prova e si rivela tutt’altra cosa che una consolazione a buon mercato, a dimostrazione del fatto che per chi crede la prova del dolore non è meno terribile che per chi non ce l’ha, perché si fa esperienza del silenzio di Dio. Basta rileggersi alcuni volumi in cui scrittori di varia estrazione, dall’americana Joyce Carol Oates ( Storia di una vedova, Bompiani 2013) all’inglese Julian Barnes ( Livelli di vita, Einaudi 2013, da cui è stato tratto un buon film, L’a l t r a metà della storia) e all’ungherese Sandor Marai ( L’ultimo dono, Adelphi 2009), si confrontano con la morte del proprio coniuge, dovuta a malattia o a morte improvvisa.
Al tema degli addii è dedicato il nuovo libro di Duccio Demetrio, già ordinario di Filosofia dell’educazione e della narrazione all’università Bicocca di Milano e ora direttore del Centro nazionale di ricerche e studi autobiografici della Libera università dell’autobiografia di Anghiari. Nel silenzio degli addii è appunto il titolo del volume, edito da Mimesis (pagine 126, euro 12,00). «La parola addio – scrive Demetrio – possiede qualcosa di arcano e non sarà certo casuale che la seconda sillaba di “addio” ne permei il senso. Sia evocatrice della presenza di entità oscure e indecifrabili che in taluni addii hanno visto l’impronta del male, della colpa, del peccato nell’eterna lotta per il bene: quando un addio sancisce l’inizio di un riscatto, di una redenzione, di una riparazione che la frattura salvifica presiede e accompagna. Dinanzi alla scomparsa di qualcuno: al tema della morte; nell’adempiersi di un avvenimento per noi risolutivo». Tante, come si comprende, sono le circostanze di un addio e possono riguardare una persona amata, un’amicizia, una situazione lavorativa, un paese o una città c h e s i l a s c i a, e s o p rat t u t t o i l c aso della perdita di uno dei propri cari. Demetrio, che si dimostra molto rispettoso delle posizioni dei credenti e dei non credenti, ha parole davvero illuminanti, cita poeti come Mimnermo, Saffo e Ovidio, scrittori come David Grossman e Clarice Lispector, teologi come Agostino e Guardini e soprattutto il filosofo Emanuele Severino, verso cui si dice debitore. «Non sappiamo dire la morte – precisa –, non sappiamo dirla sovente perché non sappiamo dire la vita, in modalità meno banali, affrettate, sincere. E questo mistero si render ancora più affascinante quando ci si congeda lasciando dietro di sé non soltanto buoni ricordi, ma buoni scritti, che testimoniano ciò che per noi volle dire vivere, amare, sognare, fare; oppure, quando questo mistero venga ricostruito dalle penne caritatevoli e misericordiose di chi resta». La scrittura infatti si rivela una straordinaria panacea per affrontare il dolore della scomparsa. Assieme al silenzio: «Nessuno dovrebbe aprir bocca, balbettare, dinanzi agli eventi dell’addio. Quando le parole si fanno inutili, superflue, trite: perché, chi avrebbe dovuto ascoltarle, non c’è più, se ne è andato per sempre o non vorrebbe sentirle, né potrebbe a esse rispondere. Ogni addio contiene verità che per pudore occorrerebbe dimenticare o consegnare a un foglio con le nostre verità più spoglie da stracciare poco dopo». Solo un ricordare affidato alla penna può attenuare lo strazio del dolore e addirittura portare alla gioia. Come ha detto Grossman: «Io scrivo. E mi rendo conto di come un uso appropriato e preciso delle parole sia talvolta una sorta di farmaco che cura una malattia».