Domani, 2 novembre 2023
Intervista a Bret Easton Ellis
Bret Easton Ellis, lei aveva già provato a scrivere Le schegge, Einaudi, a 17 anni, quando ciò che racconta lo stava vivendo. Cosa non funzionò?
La storia richiedeva un movimento sinfonico che in quegli anni non sarei stato in grado di comporre e i fatti erano troppo caldi. Non potevo scrivere di Ryan, di Debbie, del produttore che mi fece un pompino al Beverly Hills Hotel, della mia omosessualità.
Quindi l’episodio del sesso in hotel con il produttore è vero.
Certo che è vero.
Il giovane Bret non vive bene la propria omosessualità. Fu così per lei?
«Capii di essere gay a otto anni e la cosa non mi creò mai alcun problema, tutto cambiò a 17 anni, nel periodo che racconto in Le schegge. I miei amici non avevano limiti, io sì. Essendo gay, i miei desideri avevano dei confini».
Reazione?
«La frustrazione divenne rabbia, e quando la ragazza più desiderata del liceo, Debbie, mostrò interesse per me mi ci fidanzai: volevo avere ciò che avevano gli altri, pure se solo nella vita pubblica».
Nel privato?
«Facevo un gran sesso con Ryan e con Matt, in segreto».
Matt sparì sul serio, come accade nel romanzo?
«L’idea degli omicidi nacque dalla sua scomparsa».
Ha mai scoperto cosa gli sia successo?
«Nel 2020 prima d’iniziare a scrivere ho fatto delle ricerche, e ho scoperto che Matt se ne andò perché molestato da un professore».
Da ragazzo fu ossessionato dalla sua scomparsa come nel libro?
«Era un enigma, e mi attraeva da morire. Non credo di averlo mai detto, ma ho realizzato, scrivendo Le schegge, che fu il mio primo amore. Il sesso con lui era grandioso».
Per lui?
«Credo potesse fare sesso con chiunque: non gli importava niente di nessuno».
A proposito dei ragazzi: nei suoi libri sono sempre bellissimi. Ma eravate davvero tutti stupendi?
«Tom, Ryan, Matt sicuramente. Ma è chiaro: io li descrivo così come li ricordo, con gli occhi di un ragazzino arrapato».
Lei era bello come si descrive? Sia sincero.
«Su internet è pieno di foto: vada a controllare».
Sull’omosessualità: che fine fece la rabbia provata a 17 anni?
«Andai al college, e sparì».
Fece coming out?
«Non subito. L’ironia è che al primo anno andai a letto solo con ragazze».
Perché?
«Non lo so. Qualche anno fa ne ho parlato con Jonathan Lethem, mio amico e scrittore: eravamo a cena, e mi ha detto che lui al primo anno di college – andò al Bennington pure Jonathan – era sicuro fossi etero: “Hai fatto sesso con ogni ragazza dell’istituto”, mi ha detto, “e per me era ovvio fossi etero”. Lui, invece, quel primo anno fece sesso con tanti ragazzi: “Ero giovane ed eccitato: non so quanti ragazzi mi fecero un pompino”. Io sono gay, lui è etero, però andò così».
Crede di aver raccontato il sesso in modo diverso, in Le schegge?
«Lei lo crede?»
Mi sembra ci sia più libertà.
«Be’, si sbaglia. Il sesso è una parte fondamentale della vita di ciascuno, perciò ne ho sempre scritto. In American Psycho è dappertutto, in Glamorama c’è la scena di un porno, in Imperial Bedrooms quel sesso oscuro che ho fatto negli anni in cui l’ho scritto».
Ha fatto il sesso raccontato in Imperial Bedrooms?
«Sì».
Senta, ma delle cose ha scritto quante ne ha fatte? Droga, sesso, omicidi?
«Tolte le cose palesemente di finzione, quelle che sono nel romanzo per ragioni narrative, è il mio memoir».
C’è qualcosa che non rifarebbe?
«Non farei sesso con una donna, non raggirerei Debbie come ho fatto all’epoca».
Mi spiega?
«Mi fidanzai con lei perché era la ragazza più desiderata della scuola, e divenni uno dei fighi, però non ero conscio dei suoi sentimenti per me, e la feci soffrire. Ha letto Le schegge e mi ha scritto su Facebook, invitato a cena, non la vedevo da 35 anni. È stato allora che mi ha detto quanto io l’ho fatta soffrire e mi ha fatto sentire in colpa».
Le schegge è venato di nostalgia per la giovinezza. È voluto?
«Non era mia intenzione scrivere un libro sulla nostalgia della giovinezza, però immagino sia naturale venga fuori: sono comunque un sessantenne che scrive di anni bellissimi. No, lo scopo del romanzo era un altro».
Cioè?
«Raccontare quel periodo. Il weekend passato con Ryan in casa mia a scopare senza sosta. La volta che Debbie irruppe in casa mia e urlò che sembravo uno zombie. Quella in cui sono andato al Beverly Hills Hotel e mi sono fatto fare un pompino da un uomo che aveva il doppio dei miei anni».
Mi perdoni, ma la sento anche ora, la sua nostalgia.
«Ma sì, è chiaro ci sia. Ho quasi sessant’anni, in fondo».
Più volte ha detto di avere quasi sessant’anni: si sente vecchio?
«Sì. Da giovane mi dicevo che mai avrei avuto il fisico di mio padre, lo vedevo in costume, pensavo: io rimarrò perfetto. Oggi esco dalla doccia, mi vedo allo specchio e non posso far a meno di dirmi che ho il fisico di mio padre. Capita, è naturale. Sto invecchiando? Sì. Ci sto male? No. Ho un fidanzato di 23 anni più giovane, e mi basta».
Tornando al romanzo: dove sono gli adulti nella storia?
«In giro, solo non controllano i figli ogni minuto, e vivono la loro vita. La mia generazione è cresciuta autonomamente, con più libertà: oggi mi sembra che i bambini siano bambolotti. Non passavo tanto tempo con i miei, stavo da solo o con gli amici a girare in bici. Andavo da solo al cinema, a scuola, a casa dei compagni».
A lei stava bene?
«Avrei voluto ricevere più attenzioni da parte di mio padre, okay, e avrei voluto fosse una persona migliore, bevesse meno, che io gli piacessi di più. Ma sì, la situazione mi stava bene».
Non ha un bel rapporto con suo padre?
«No, non ce l’avevo: è morto trent’anni fa. Non ero il figlio che avrebbe voluto, e non ne ha mai fatto un mistero, tutto qui. E poi era un alcolista, e lo temevo».
Perché aveva paura di suo padre?
«Era volubile. Un momento era gentile, dolce e quello dopo violento, rabbioso. Il problema di avere un genitore alcolizzato è che non sai mai cosa ti aspetta. E poi il matrimonio dei miei si ruppe che io ero bambino, e sono cresciuto tra le loro urla».
Suo padre era violento?
«Oddio, non era violento. Ogni tanto mi sculacciava o mi dava uno schiaffo o mi spingeva, ma era solo quel tipo di violenza che i genitori usano con i figli».
Il vostro rapporto non si è risanato?
«No. Un giorno divenne una non-entità, e basta. Tentò di ricucire quando Meno di zero divenne un successo, ma per me era troppo tardi».
Lo rimpiange?
«No. Mi dispiace solo che sia morto giovane. Sa, capita che le persone cambino da vecchie, che si ammorbidiscano e credo che a lui sarebbe successo. Avesse avuto più tempo, sarebbe diventato un essere umano decente».
Pensa che il mondo sia cambiato da quando ha scritto Meno di zero?
«È un altro pianeta».
Cos’è cambiato?
«Tutto, e in peggio».
La ragione?
«I social media. Tutti pensano di avere una voce valida, ma non è affatto così».
L’ultimo momento bello per il mondo?
«Quando venne pubblicato Back to Black di Amy Winehouse. L’ultimo grande momento della nostra cultura. Prima dei cellulari, di Instagram, di Facebook. L’ultima opera artistica capace di unirci tutti. Da lì, è ovvio, molte altre cose: Trump e altro. La gente si è incazzata».
In effetti, ho l’impressione siano tutti isterici.
«Io non lo sono. Ho trovato un equilibrio».
Vale a dire?
«Guardo programmi di cucina».
Lei cucina?
«Sono bravissimo».
C’è tanta paura nel romanzo. Di cosa aveva paura all’epoca, di cosa oggi?
«Da ragazzo, della famiglia Manson. Ne ho parlato con Quentin Tarantino non molto tempo fa: gli omicidi dei Manson sono il primo momento in cui io e lui entrammo in contatto con il male. Oggi di ammalarmi».
Ha paura della morte?
«No, non della morte: di ammalarmi, è diverso».
Ellis, la mia ultima domanda – la faccio a tutti, questa. Immagini di avere ottant’anni, e che sia una domenica mattina. Con chi è, cosa fa?
«Dubito sarò ancora in giro. Morirò prima, non ho il fisico necessario per tirare avanti fino agli 80, ho fatto troppe cose».
E?
«E va bene così, che cazzo».
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