Linkiesta, 1 novembre 2023
Sul caro borse da donna
Era vent’anni fa. Avevamo tutte suppergiù trent’anni: io, le mie amiche, Phoebe Philo, Stella McCartney. Avevamo trent’anni e ci importava della moda in modi in cui non è sano t’importi di niente (ma d’altra parte se non sei malsana a trent’anni, quando).
L’altro giorno ho detto a una trentenne: tu non lo sai, ma c’è stato un tempo in cui scrivendo sui giornali ci si compravano le Birkin, adesso al massimo una Alviero Martini. (Nota per chi non sa la moda: la Birkin è una borsa di Hermès molto costosa e, prima dell’avvento delle Kardashian del mondo, molto chic; Alviero Martini è la marca di quelle borse con su le mappe del mondo).
Phoebe Philo era arrivata in Chloé come assistente di Stella McCartney, giacché vent’anni fa nessuno faceva le copertine sui nepo baby ma poteva già accadere che la figlia di uno dei Beatles avesse per assistente la figlia di una che aveva fatto le copertine dei dischi di Bowie.
Poi Stella era andata a fare Stella, e noi avevamo deciso che il vero talento era Phoebe. Ci sono due borse che vent’anni fa non pagavamo le bollette per comprare. Una è una borsa di Balenciaga che è ancora oggi la più bella e la più comoda tra le molte borse in mio possesso, e i cui esemplari sono la prima cosa che tiro fuori da qualunque scatolone di qualunque trasloco.
L’altra è la Paddington, che è una sindrome di Stoccolma fatta borsa. La Paddington, che Phoebe ci fece desiderare in modi che ci facevano passare le giornate a mandare mail a negozi inglesi (un giorno dovremo parlare di che sport estremo fosse la caccia ai vestiti prima che internet rendesse tutto facilissimo e quindi noiosissimo).
La Paddington aveva due caratteristiche. La prima era la pesantezza. Pesava, da vuota, come un fustino di detersivo. Anche la Birkin è una borsa pesante, ma ci sta tutto, e quindi le manca la seconda caratteristica invalidante: nella Paddington non ci sta niente (ne parlo al presente perché, negli scatoloni che non m’incomodo a disfare, ci sono ancora Paddington che non sono più abbastanza trentenne da usare).
Phoebe Philo ci faceva comprare una borsa in una pelle dal peso specifico del piombo, di una forma tubolare che rendeva impossibile metterci non dico il computer ma anche solo un paio di scarpe (forse è allora che è nata la battuta di “Succession” sulle borse ridicolmente capienti usate solo dalle povere). E, per maramaldeggiare ulteriormente, ci attaccava un lucchetto che pesava come un’ulteriore confezione di Dixan.
Quelle in cui la pigrizia (o il timore della scoliosi) prevaleva sul modaiolismo toglievano il lucchetto; le altre, eroiche, trascinavano senza fare a loro stesse sconti le catene della loro affezione al phoebephilismo (il lucchetto ce lo avevano tutte le Chloé di quegli anni, almeno tutte quelle che ricordo io, e non erano lucchetti piccini e decorativi, erano lucchetti con cui chiudere cancelli medievali).
Quando avevo vent’anni si portava molto un romanzo il cui incipit chiedeva: perché la misura dell’amore è la perdita? Dieci anni dopo, avremmo dovuto chiederci: perché la misura del successo d’una stilista è il sacrificio delle sue clienti?
Poi Phoebe Philo andò a Céline (che io scrivo con l’accento come forma di protesta contro i dementi che gliel’hanno successivamente tolto), e decise di farsi perdonare, inventando la borsa più comoda del mondo. Nella Trio non ci stava il computer, ma potevi mettertela a tracolla e non avere ingombri per intere giornate.
Io a quel punto ero più vicina ai quaranta che ai trenta, ma non avevo ancora appreso la principale regola delle donne adulte: se trovi una cosa che ti piace, comprala in più copie. Figlia dell’altra regola principale: non ti pentirai di nulla come delle cose non comprate.
Pensavo sarebbe stato per sempre. Pensavo avrei avuto tempo di comprare Trio in ogni colore. Ne comprai una sola, azzurra. Certo che l’avrei voluta verde, rossa, di ogni tinta accesa (non sono mai stata abbastanza priva di personalità da comprare borse nere). Ma la Trio era un così istantaneo classico che avevo una vita per comprarle. E invece.
E invece Phoebe andò via, Hedi Slimane che la sostituì la odiava, o almeno così dicevano i pettegoli, fatto sta che mise fuori produzione la Trio (che sempre i pettegoli dicono essere anche l’unico prodotto Céline che vendesse).
E, siccome è la borsa più risolutiva del mondo, chi ce l’ha non la vende: sui siti di usato, in questi anni, ne ho trovate solo nere e grigio scuro, solo di noiosissimi non colori. Soffrivo. Ho sofferto fino a giugno.
Poi a giugno una che sa le cose mi ha detto: Phoebe sta per fare qualcosa. Phoebe potrebbe rifare la Trio. E poi è arrivato lunedì, quel giorno all’anno in cui io lavoro e solo la sera ho tempo d’accorgermi che Phoebe ha fatto una propria collezione, l’ha messa in vendita sul suo sito, e i pezzi sono già esauriti.
La Gig bag è tripla e un po’ più grande (la Trio era tripla ma piccina, era anche quello a renderla meravigliosa), di colori per ora mestissimi, e comunque quando la sera ho aperto il sito era già finita. Costa duemila e ottocento euro, e potrei sbagliarmi ma secondo me la Trio ne costava meno di mille. Mi sono meravigliata? No: i prezzi del lusso negli ultimi anni sono cresciuti in modi che mi fanno ringraziare ogni giorno di aver riempito i miei armadi prima che tutto avesse costi abbordabili solo per gli emiri.
L’avrei comprata se non fosse stata esaurita? Naturalmente mi dico che l’uva è acerba e che io nera o bianca certo non la compravo (non posso possedere accessori bianchi per colpa di Stefano Benni che, quand’ero piccina, in una poesia descrisse le scarpe di un hooligan come «calamari bianchi», condizionandomi per sempre).
Ogni volta che apro TikTok, l’algoritmo – che è cinese, e conosce le mie lacune e i miei bisogni, diversamente dai suoi colleghi californiani – mi propone una tizia che fa una rubrica sui vestiti che si chiama «Ne vale la pena?». È (giustamente) fissata coi tessuti, e si chiede come mai costi tanto la roba d’acrilico (neanche l’acrilico misto cashmere che diceva di recente l’Atlantic, proprio acrilico, poliestere, plastica, quella roba lì).
L’altro giorno esaminava dei capi di Elisabetta Franchi, e io mi sono resa conto che i vestiti di Elisabetta Franchi (oltretutto in tessuti non esattamente lussuosi) costano quel che ai miei tempi costavano quelli di Prada. Immagino che quelli di Prada siano cresciuti in proporzione. Per fortuna che ho più roba di quanta me ne serva, negli armadi.
Tuttavia The Cut ha pubblicato un articolo sull’immoralità di Phoebe che ha fatto una collezione in cui c’è un cappotto da sedicimila e cinquecento dollari. Ma dico: sono stati assenti durante tutto il dibattito sul quiet luxury? E soprattutto: non hanno mai fatto un giro tra i cashmere più cari e di peggior qualità di questi anni? Non si sono accorti che un prezzo quadruplicato è ormai un prezzo medio?
Ieri sono passata davanti a una vetrina con dei tortelli al tartufo. Non sono entrata a prenderli non perché abbia per il tartufo una cotta meno accecante di quella che ho per Phoebe, ma perché costavano solo ventinove euro al chilo: considerato che i tortellini con ordinario macinato ne costano cinquanta, figuriamoci se in quelli c’è davvero il tartufo. È stato allora che mi sono ricordata della conversazione con la trentenne.
La mia prima Birkin, vent’anni fa, costò cinquemila euro. Adesso, mi ha fatto notare lei, probabilmente ci compri proprio una Alviero Martini: mica saranno così poco furbi da essere rimasti economici, chi glielo fa fare, possono pure rivendicare il primato delle mappe stampate. A quel punto, se vuoi la tinta unita e il minimalismo stronzista di Phoebe, è chiaro come devi rispondere alla domanda di The Cut, che è: preferisci una giacca di pelle o dare l’anticipo per una casa?