La Stampa, 1 novembre 2023
Intervista a Walter Veltroni
Sulla copertina del nuovo libro di Walter Veltroni, I fratelli che volevano cambiare il mondo. La storia di John e Bob Kennedy (Feltrinelli), i suoi idoli di sempre, due ragazzini in braghe corte se ne stanno sdraiati a guardare la luna.È la luna sulla quale John Kennedy disse agli americani che era importante andare, quando era presidente da un anno, perché bisognava battere l’Unione Sovietica nello spazio, lontano dalla terra. «Scegliamo di andare sulla luna», disse. Ed è anche la luna che voleva Pietro Ingrao, il comunista eretico ortodosso, per tutta la vita fedele al “principio speranza”, lo stesso al quale Veltroni dice di credere e, soprattutto, di attenersi. Il credere e l’attenersi, l’ideale e la pratica sono i cardini di questo libro destinato ai ragazzi e sono quella “politica, in un’altra forma” che l’ex leader del Pd, quando lasciò il Parlamento, si ripromise di perseguire.Giovanni, il nome che sempre Veltroni dà ai protagonisti delle sue storie, è un adolescente al quale la nonna, diventata grande negli Stati Uniti, affida il diario di quando, giovanissima, s’innamorò della politica grazie ai fratelli Kennedy. Perché erano giovani, travolgenti, preparati, parlavano di felicità e giustizia, parlavano di cose che facevano e incarnavano: erano il mondo nuovo.Veltroni, cos’è un rivoluzionario?«Se riteniamo che la rivoluzione sia il cambiamento dell’ordine delle cose esistente, i veri rivoluzionari sono i riformisti, tutti coloro i quali hanno cercato di spostare più avanti l’ordine delle cose, anche senza ideologia, ma con azioni concrete. Ho sempre amato quelli che decidevano il cambiamento molto di più di quelli che ne annunciavano solo l’esigenza. Anche nelle forme più radicali ed estreme. Per me, come per ogni democratico, non esiste cambiamento sociale possibile che non sia associato alla piena libertà dei cittadini».Perché il Pd non riesce a essere un partito riformista e rivoluzionario come lei lo intende?«Il punto è proprio qui: dipende da come si intende il riformismo. Per me, se non è radicale, non è riformismo e se non è riformismo non è radicale. Radicalità e riformismo sono fratelli, non opposti. Si pensa spesso che la parola riformismo equivalga a una sorta di moderatismo, e invece per me è il contrario: il riformismo è il cambiamento più radicale possibile perché è quello reale, non quello declamato ma quello realizzato. So che ora non è in auge e tendono ad affermarsi pensieri estremi, populismi, demagogie, perfino leader che dicono cose un tempo impronunciabili, e penso a Bolsonaro, a Trump. La storia ha dimostrato che queste ricette semplificate sono facili ma si infrangono sulla complessità e la realtà delle cose. Mi rendo conto che non è facile, ma rimango convinto del valore dell’identità di un partito che sia riformista nel senso che dicevo. E penso che il riformismo non necessariamente si esercita dal governo: si può fare anche dall’opposizione».Cosa dice ai ragazzi la storia dei Kennedy?«Alla fine della Seconda guerra mondiale, molti giovani americani erano segnati da una guerra che avevano combattuto per salvare noi, che in Europa ci eravamo affidati a Hitler e Mussolini. I prati pieni di croci bianche in Normandia o a Nettuno lo raccontano. In soli 15 anni, poi, quella stessa generazione ha messo via le macerie, non si è abbandonata al dolore della perdita ed ha espresso un presidente come Kennedy. Quel tempo, il dopoguerra, il risollevare l’umanità dalle macerie e dall’odio è stata una stagione magnifica della storia umana. E questo ha in sé il racconto di una speranza, l’alimento alternativo alla paura che oggi sembra dominare il discorso pubblico. I Kennedy hanno interpretato questa speranza con la forza di non ridurla a una illusione. Hanno dimostrato che tra quello che si diceva e quello che si faceva ci poteva essere una distanza molto breve».Che cos’è un bambino?«Quello che una volta ha detto Fellini: i bambini non sono errori da correggere. Gli adulti pensano che siano plastilina da modellare, esseri umani da mettere in carreggiata, e disconoscono così la loro meravigliosa creatività. Quando ho fatto un film intervistando 39 bambini tra i 9 e i 13 anni, ho avuto la conferma di quello che diceva Antoine de Saint-Exupéry: i grandi non capiscono mai niente e i bambini si stufano di dovergli spiegare sempre tutto. Ho un grande rispetto dei bambini e delle persone che non si vergognano di esserlo stati e di sentircisi ancora, ecco perché ho accettato di scrivere per ragazzi, e questo è il terzo libro che faccio in una collana dedicata a loro (gli altri sono dedicati alla Costituzione e a Sami Modiano, ndr)».La protagonista del suo libro si allontana dalla politica quando Kennedy viene assassinato. La violenza deprime per sempre un ideale?«La violenza è tanto più devastante quando interrompe una speranza. I Kennedy, Palme, Rabin, Martin Luther King, Aldo Moro, Falcone, Borsellino, erano tutti portatori di una grande speranza non perché fossero declamatore di buone intenzioni ma perché erano realizzatori di buone intenzioni. Per questo sono stati uccisi».Nel suo ultimo film, Quando, fa dire al protagonista: «Non mi piacevano le ideologie ma i sentimenti». L’ideologia non nasce da un grande sentimento?«Intanto distinguiamo: gli ideali sono una cosa, l’ideologia un’altra. L’ideologia in generale è un sistema chiuso, dentro al quale esistono recinti non valicabili. Gli ideali e non le ideologie hanno cambiato il mondo, insieme al coraggio di quelli che partendo dagli ideali hanno fatto gesti concreti. Nel film, quella frase mi serviva a raccontare che non ho mai visto una comunità più bella di quella creata dal Pci. Una comunità di persone che avevano a cuore il destino dei più deboli e si battevano per la libertà e per i diritti. Se invece dovessi parlare delle ideologie e cioè della dittatura del proletariato, del partito unico, della nazionalizzazione dei mezzi di produzione, farei più fatica a giudicarla con la stessa passione. E no, l’ideologia non nasce dal sentimento tanto è vero che spesso degenera in autoritarismo o integralismo. La giustizia è il sentimento che ha cambiato il mondo. Gli ideali hanno guidato i veri cambiamenti».Come si fa, in questi giorni, a distinguere tra giustizia e vendetta?«Riconoscendo che nessuno ha il diritto di esercitare violenza nello spazio di uno stato sovrano. E questo è avvenuto il 7 ottobre per mano di Hamas. Ogni reazione, però, deve essere proporzionata e non esiste alternativa, in quell’area del mondo, all’esistenza di due popoli e due stati: il riconoscimento dello Stato di Palestina e la sicurezza dello stato di Israele vanno di pari passo. Questa vicenda ci dimostra per l’ennesima volta come sia necessaria la politica e non la guerra per risolvere i problemi. E però la politica deve avere l’intelligenza di non coltivare l’odio, ma di porsi come strumento di armonizzazione delle differenze».Qualcuno oggi sarebbe in grado, come fece Bob Kennedy a Indianapolis dopo l’assassinio di King, di disinnescare la rabbia dei cittadini?«Bob Kennedy atterra a Indianapolis e gli dicono che è stato ucciso King, lui sale sul palco e tiene il suo comizio, anche se la polizia gli sconsiglia di farlo. Parla a braccio. Lui, bianco, dà a una platea di neri la notizia della morte del loro leader. La sua forza è la credibilità, confermata dalla sua storia, perché lui era stato quello che aveva sostenuto l’impegno della guardia federale contro i governatori degli Stati del Sud che volevano impedire l’accesso di ragazzi neri nelle università dei bianchi. E le sue parole traducono la rabbia e lo sconforto di chi lo ascolta in energia civile. Non per caso Indianapolis è stata una delle poche città americane senza scontri, dopo la morte di King. L’altra grandezza della politica è la capacità di tradurre la rabbia in energia democratica, in cambiamento. Erano carichi di rabbia gli immigranti che dal sud Italia andavano a Torino e dormivano in 8 in una stanza, però allora c’erano un sindacato e dei partiti che traducevano quella rabbia in energia di cambiamento. E poi le cose sono cambiate».Edmondo Berselli, parlando di lei, una volta ha detto: «La cultura del ma va abolita: dobbiamo smetterla di dire che il parco è sporco ma noi siamo rispettosi di tutte le diversità. Dobbiamo dire che il parco è sporco e va pulito».«Sono d’accordo».Abiura al suo “ma anche”?«No, il ma anche è la libertà. Senza se e senza ma ci sono le dittature. Senza se e senza ma per me c’è solo la legalità. Si può dire qualcosa di diverso da: bisogna garantire la sicurezza di Israele ma anche la possibilità dei civili palestinesi di non essere bombardati? No. Perché la libertà è fatta di ricerca, ascolto, inclusione. Culturalmente, la libertà è il dubbio: le certezze assolute sono proprie dei sistemi autoritari».Però il mondo sembra innamorato dell’autoritarismo e non della libertà del dubbio.«Da anni studio il fascismo perché ho bisogno di spiegarmi come sia potuto accadere che la Germania di Goethe abbia eletto con i suoi voti Hitler alla cancelleria o come sia successo che il paese di Michelangelo abbia applaudito Mussolini quando rivendicava l’assassinio di Matteotti. Ci sono momenti di passaggio della storia umana in cui gli elementi razionali tendono a essere messi in discussione o dalla radicalità di crisi sociali o da cambiamenti epocali. Stiamo passando dalla cruna di un ago: può darsi che ci riusciamo oppure no».Della gerontocrazia della politica americana cosa pensa?«Che rispecchia le società occidentali: se sorvola una qualsiasi capitale europea o americana, vedrà una maggioranza di teste bianche. Purtroppo».Ha mai tradito un suo ideale?«No. Penso di essere stato permanentemente fedele alle idee che avevo da ragazzo. Certo, le ho aggiornate al corso del tempo ma l’ispirazione e i valori di fondo sono gli stessi che nel 1973 mi portavano a passare le notti a stampare volantini per la libertà del Cile».Cosa sogna per il futuro?«Per il mio, niente: vedo più vicino il traguardo dell’arrivo, non coltivo sogni personali. Per il mondo, sogno la pace». —