il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2023
A chi fa comodo il 7 ottobre
Pur condannando nella maniera più netta possibile il massacro commesso da Hamas, il segretario Onu ha voluto ricordare al mondo che quelle azioni non vengono dal nulla.
Ha affermato che alla terribile tragedia del 7 ottobre non è possibile dissociare la consapevolezza di 56 anni di occupazione dalla reazione emotiva di fronte alla tragedia del 7 ottobre. La risposta israeliana non si è fatta attendere. Il governo di Tel Aviv ha chiesto le dimissioni di Antonio Guterres e lo ha accusato di sostenere Hamas e giustificare il massacro. Lettura che i media hanno sostenuto acriticamente e che ha messo sul tavolo una nuova accusa di antisemitismo. Prima del 7 ottobre veniva bollata come antisemita ogni critica allo Stato di Israele e la messa in discussione delle basi morali del sionismo, paragonate al negazionismo sull’Olocausto. Dopo il 7 ottobre è assimilato all’antisemitismo anche il tentativo di contestualizzare e storicizzare le azioni dei palestinesi, tentativo che in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, è considerato anche come l’anticamera della giustificazione del terrorismo.
La de-storicizzazione degli eventi del 7 ottobre dà ai governi un pretesto per portare avanti politiche che finora avevano evitato di agire in ragione di considerazioni etiche, tattiche o strategiche. Per Israele, l’attacco del primo sabato di ottobre è usato come pretesto per perseguire politiche genocide nella Striscia di Gaza. Per gli Usa è un pretesto per cercare di riaffermare la propria presenza nell’area mediorientale dopo anni di assenza, e per alcuni Paesi occidentali è un pretesto per violare e limitare le libertà democratiche dei loro cittadini, in nome di una nuova guerra al terrorismo.
La de-contestualizzazione storica ha anche messo in luce una discrepanza tra i messaggi di sostegno e solidarietà dei governi occidentali nei confronti di Israele e il modo in cui questi messaggi vengono interpretati. Infatti, sebbene avessero l’intenzione di mostrare la compassione e l’attenzione dell’Occidente verso Tel Aviv, sono stati intesi da Israele come un’assoluzione per le passate violazioni del diritto internazionale e dei diritti fondamentali dei palestinesi, oltre che come un assegno in bianco per continuare l’opera di distruzione della Striscia.
I contesti in cui inquadrare gli ultimi eventi sono vari, e sono tutti storici. (…) Quello più recente e rilevante per la crisi attuale, è la pulizia etnica della Palestina del 1948, operazione che ha compreso anche lo sfratto forzato dei palestinesi nella Striscia di Gaza, proprio da quei villaggi sulle cui rovine sono stati edificati alcuni degli insediamenti israeliani colpiti il 7 ottobre 2023. Questi palestinesi sradicati facevano parte del complesso dei 750 mila palestinesi che fino al 1948 vivevano in oltre 500 villaggi e una dozzina di città, e d’improvviso persero la loro casa e divennero rifugiati.
Il mondo si accorse di questa pulizia etnica, ma non la condannò. Di conseguenza, Israele ha continuato a ricorrere abitualmente alla pulizia etnica come strumento per assicurarsi di avere il minor numero possibile di palestinesi nativi nello spazio della Palestina storica. Il piano ha incluso l’espulsione di 300 mila palestinesi durante e dopo la guerra del 1967 e l’espulsione di oltre 600 mila dalla Cisgiordania, Gerusalemme e la Striscia di Gaza.
L’occupazione a lungo termine della Cisgiordania ha portato centinaia di migliaia di palestinesi a subire incarcerazioni senza processo, punizioni collettive e vessazioni da parte dei coloni israeliani, oltre che a non avere alcuna voce in capitolo sul proprio futuro. Infine, gli oltre 15 anni di assedio di Gaza, uno dei più lunghi della storia, riguarda una popolazione composta quasi per metà da bambini. Già nel 2020 le Nazioni Unite hanno sostenuto che quella dei gazawi non è un’esistenza umana sostenibile. È importante ricordare che l’assedio è stato imposto in risposta alle elezioni democratiche che si sono tenute nella Striscia, quando gli abitanti di Gaza hanno preferito Hamas all’Autorità Palestinese. Ma ancora più importante è ricordare che già nel 1994 la Striscia di Gaza era circondata da filo spinato e totalmente staccata dalla Cisgiordania, perché Israele negava qualunque collegamento organico, sconfessando di fatto l’idea della soluzione dei due Stati solo un anno dopo la firma degli accordi di Oslo, che avrebbero dovuto portare a una pace tra i due popoli proprio sulla base di quella soluzione. Quel filo spinato e l’aumento dell’ebraicizzazione della Cisgiordania erano una chiara indicazione del fatto che Oslo, agli occhi degli israeliani, era solo un’occupazione con altri mezzi, non una genuina ricerca di pace.
Israele controllava i punti di uscita e di ingresso al ghetto di Gaza, monitorava l’ingresso del cibo (a volte pesando anche le calorie), delle merci, delle medicine e degli altri beni di prima necessità. Hamas ha reagito lanciando razzi sulle aree civili di Israele. Israele ha detto che lo faceva perché la sua ideologia prevedeva l’uccisione degli ebrei, paragonando l’organizzazione islamista a un’estensione del nazismo e ignorando del tutto il contesto della Nakba, dell’assedio disumano e barbarico di due milioni di persone e dell’oppressione dei loro compatrioti in altre parti della Palestina storica. Hamas, per molti versi, è stato l’unico gruppo palestinese che prometteva ai palestinesi di vendicarsi delle politiche oppressive israeliane, anche se oggi è chiaro che il modo in cui ha risposto a Israele può portare alla sua stessa fine, almeno nella Striscia di Gaza, e fornisce un pretesto per ulteriori oppressioni del popolo palestinese. L’efferatezza dell’attacco di Hamas non può essere giustificata in alcun modo, ma questo non significa che i suoi atti non possano essere spiegati e contestualizzati. Per quanto orribile sia stato l’attacco, e per quanto barbara sia stata la risposta israeliana, la cattiva notizia è che tutto ciò non cambia per nulla le carte in tavola, nonostante l’ingente costo umano da entrambe le parti. Israele rimarrà uno Stato fondato da un movimento coloniale, elemento che resta nel suo Dna politico e determina la sua natura ideologica. Ciò significa che, nonostante si autodefinisca l’unica democrazia del Medio Oriente, Israele rimarrà una democrazia solo per i suoi cittadini ebrei.
La lotta intestina che ha diviso il Paese fino al 7 ottobre, tra quello che potremmo chiamare lo “Stato di Giudea” da un lato, inteso come lo Stato dei coloni che vogliono un Israele ancora più teocratico e razzista, e dall’altro con lo Stato di Israele inteso come il mantenimento dello status quo, è destinata a riaffiorare, anzi ci sono già avvisaglie di un’imminente ripresa dello scontro.
La definizione di Israele come Stato di apartheid che ne hanno dato alcune organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, resterà valida nonostante l’evolversi degli eventi nella Striscia e anche dopo. I palestinesi non scompariranno e continueranno la lotta di liberazione, la società civile di molti Paesi del mondo si schiererà con loro mentre i governi di quegli stessi Paesi continueranno a sostenere Israele e a garantirgli l’immunità.
La via d’uscita da questa impasse è sempre la stessa: un cambio di regime che garantisca diritti uguali per tutti from the river to the sea (‘dal fiume al mare’ come recita il famoso slogan, ndt) e il ritorno dei rifugiati. Altrimenti, lo spargimento ciclico di sangue non avrà mai fine.
Traduzione di Riccardo Antoniucci