il Fatto Quotidiano, 1 gennaio 2023
West bank, l’altro fronte
Nablus – Jenin (Cisgiordania). “Cos’altro possiamo fare se non lottare per difendere il nostro Paese? Sono fiera di mio fratello”. In una terrazza del campo profughi di Jenin, incastrata fra le pericolanti case oramai in muratura, Isiaee Arafat piange con orgoglio la morte di Rasmi, ucciso dalle forze armate israeliane nell’ennesimo raid dei soldati dell’Idf, entrati nella notte fra domenica e lunedì in città per distruggere edifici e diffondere terrore.
Erano le 4 di notte e Rasmi è stato colpito da un cecchino che ha dovuto sparare due colpi alla schiena per ucciderlo. Rasmi era un miliziano dell’Islamic Jihad e il suo volto con la bandana e le braccia strette al suo fucile è già stato stampato sui poster raffiguranti i martiri di questo conflitto ed è pronto per essere attaccato lungo le strade. Nel campo profughi di Jenin, tutto ha sapore di guerra e di resistenza. Le pareti delle case e delle vie sono ricoperte di manifesti logori e strappati dei visi dei palestinesi e dei miliziani che via via vengono sostituiti con le facce dei nuovi “martiri”, fino a lasciare i muri grondanti di sudore e di memoria. I ragazzini, anche loro con le bandane dei gruppi armati, giocano con la palla nelle stradine e nel cimitero le lapidi ricordano da quanti anni dura questo conflitto e quante persone sono morte per difendere la causa. Giocano anche qui i bambini: hanno già visto così tanti essere seppelliti, che a loro non fa più impressione.
I defunti, se affiliati a qualche gruppo, vengono ricordati in uniforme e con fierezza, sempre pronti a combattere soprattutto nell’aldilà, dove ci sarà la vera guerra davanti a un unico Dio. Nel cimitero del campo di Jenin, i morti sono così tanti che per camminare bisogna andare in punta di piedi in salita, evitando le tombe e di scivolare fra le pietre. Per Rasmi è stato ricavato un piccolo spazio fra due lapidi, ora ricoperto di terra e di ciottoli dove i suoi amici versano l’acqua da una bottiglia, come volessero innaffiare un fiore.
Naim Feraene aveva 31 anni ed era davanti a casa sua nel campo profughi di Askar a Nablus, quando ha visto tre ragazzi feriti da arma da fuoco sdraiati per terra. L’esercito israeliano è entrato anche qui, di notte, per distruggere un appartamento, considerato affiliato ai miliziani. L’ha fatto esplodere e ora una bandiera di Hamas sventola legata agli scheletri dell’edificio rimasto. La violenza e l’odio non possono fare altro che creare altra violenza e altro odio, e altri mostri, in questo caso verdi come Hamas, ma a volte neri come la morte. Ha provato a salvarli, Naim, i tre ragazzi palestinesi, diventando lui stesso la vittima dell’agguato.
Deve essere stato tutto così rapido, perché nemmeno Abu Samir e Ibraim Zahran ricordano esattamente cosa sia successo: dai loro letti d’ospedale guardano con dolore il soffitto mentre le loro ferite, rispettivamente alla gamba e al petto, continuano a sanguinare. Forse per il suo gesto di amore e di speranza, o forse perché era uno importante, il corpo di Naim viene portato – di corsa come spesso accade nei funerali nel mondo arabo – lungo le strade del campo profughi, con in testa alla processione decine di uomini armati che per ore sparano la loro rabbia verso il cielo. Dai loro fucili nuovi e dalla quantità di munizioni sprecate non sembra che abbiano paura, ma solo voglia di una nuova vendetta. Come l’odio, anche la vendetta genera altra vendetta e ancora morte.
La strada da Nablus a Jenin si insinua in un paesaggio desertico dove fra le curve e le pietraie sorgono i settler degli israeliani, anticipati da qualche centinaia di metri dai soldati dell’esercito che puntano i loro fucili a chiunque passi di lì, compresi i giornalisti, non si sa mai.
La Cisgiordania è un Paese dove da decenni si insediano con pazienza e con violenza migliaia di coloni ultraortodossi, supportati dall’esercito e da una politica di espansione coloniale, e convinti di essere i veri padroni di quella terra e disposti a sacrificare la loro vita perché hanno firmato un patto con Dio. Piano piano gli accampamenti diventano case e le case palazzi e i palazzi quartieri con i centri commerciali delimitati da muri, filo spinato e torrette, e presieduti da militari e cecchini. I settlement sono più di 140 lungo tutta la West Bank. Proprio l’estremo dispiegamento di forze militari a protezione degli insediamenti abusivi è stata una delle cause dell’impreparazione dell’esercito israeliano negli attacchi del 7 ottobre di Hamas.
Da allora non c’è pace per i palestinesi. Mentre Gaza sanguina, le morti con difficoltà si riescono ancora a contare e l’accesso ai giornalisti internazionali continua a essere vietato, in West Bank oltre 110 persone sono state uccise nei continui attacchi dell’Idf e dei coloni. Alcuni di loro, come Rasmi, lottavano per difendere la propria terra, mentre altri si sono solo trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato.