La Lettura, 31 ottobre 2023
Su Goya
Sollecitato dal critico Michel Leiris, Francis Bacon, in una lettera, ha manifestato la propria insofferenza verso ogni forma di illustrazione e di raffigurazione mimetica, sostenendo le ragioni di un realismo non «trascrittore» ma «creatore», capace di instaurare diverse ipotesi di realtà. «Forse il realismo, nella sua espressione più profonda, è sempre soggettivo». Sono parole che, più di due secoli prima, avrebbe potuto pronunciare anche Francisco Goya, al quale è dedicata una mostra curata da Víctor Nieto Alcaide, allestita, dal prossimo 31 ottobre, a Palazzo Reale di Milano (fino al 3 marzo). Scandita in sezioni tematiche, l’esposizione intreccia la dimensione artistica con quella esistenziale. E, seguendo un andamento cronologico, pone in dialogo alcuni quadri di Goya (non i capolavori) con le sue celebri incisioni, affiancate dalle matrici di rame (restaurate dall’Istituto di Calcografia della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando). Un appuntamento che sembra aggiungere poco alla conoscenza dell’opera di uno tra i grandi anticipatori degli espressionismi otto-novecenteschi, puntando su un approccio piuttosto generalista e didascalico, non troppo diverso da quello già adottato in Goya e il mondo moderno (organizzata a Palazzo Reale nel 2010).
E, tuttavia, anche se priva di uno sguardo storico-critico originale, la mostra milanese è un’occasione per tornare a misurarsi con un’avventura poetica controversa e difficile che attraversa la fine dell’Antico Regime, l’era dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese, le guerre napoleoniche, la restaurazione assolutistica. Goya percorre queste epoche con una forte consapevolezza di sé, ma sempre alla ricerca del suo vero io. Dovrà attendere quarant’anni prima di diventare il maestro notturno che conosciamo.
A lungo Goya è condannato a comportarsi da «classico» pittore di corte, incline ad assumere posture servili nei confronti del potere, conoscitore della maestria della tradizione pittorica spagnola (El Greco e Velázquez), influenzato anche dalla scuola veneziana (Tiziano e Tiepolo), autore di ritratti non troppo diversi da quelli eseguiti da Van Dyck e Reynolds. Poi, intorno al 1800, egli smette di voler piacere. È allora che, come ha scritto André Malraux, avverte un profondo bisogno di «far sentire l’anima più avida di assoluto, e insieme la più separata da questo». Si ritaglia uno spazio ostinatamente solitario. E spezza i ponti che lo collegano al suo tempo. La sua sfida: registrare dall’interno, ma guardare anche dal di fuori le liturgie sottese a un intero sistema di governo.
Nasce così una drammaturgia fatta di uomini e di pietre, che oscilla tra intenzioni veristiche ed esiti visionari. Goya si abbandona a una sorta di semplificazione d’impronta realistica, che custodisce spessori di intensità, di enigma, di inquietudine (ricordate la dichiarazione di Bacon?). Per un verso, cattura attimi primari, estratti dalla cronaca. Per un altro verso, il confronto con i miracoli nascosti in ciò che è in evidenza lo spinge a un passo dall’abisso. Si spalancano le porte di un mondo diabolico, torbido, tenebroso. È «la ribellione della ragione» cui rinvia il titolo della mostra milanese. Protagonista di un viaggio al termine della notte, Goya non si attiene più alle regole accademiche. A differenza dei modelli pittorici cui si richiama, egli non conosce pietà. Non insegue la bellezza e la perfezione: vuole svelare la vanità, la cupidigia e la vacuità dei potenti. Non si limita a «postillare» fatti biblici, storici o di genere: li allegorizza, mettendo in scena iconografie disturbanti e misteriose, che incarnano cinismi e spietatezze. Trasfigura i rimandi storici, intento a svelare il volto più tragico e tremendo della sua epoca: in un quadro del 1808, si vede un gigante, dalle dimensioni colossali, che si staglia su un paesaggio rischiarato dalla luna, implicita allusione al destino della Spagna oppressa dalla guerra e dalla follia umana. Siamo all’alba della modernità. È una modernità che interroga, si fa irriverente verso la società e le istituzioni, non chiude gli occhi di fronte alle sofferenze e alle angosce, affronta gli orrori della guerra. Nel momento in cui smette di adeguarsi alle richieste della committenza, Goya conquista una scandalosa libertà. Nelle sue opere, traspone visioni intime, quasi mimando le ritualità cui si attengono i poeti per comporre i loro versi. Incurante degli argini del disegno, sottolineata dall’inconfondibile incrinatura nella colata del pennello e dagli accenti di colore, elabora una scrittura dei sogni che distrugge i modi propri della rappresentazione seicentesca. Fino a condurre al limite del disfacimento figurale.
Angelo sterminatore, Goya si porta oltre ogni idealismo estetizzante, fondendo lucidità illuministica caravaggesca e furente sarcasmo. Profeta di un espressionismo esasperato e disinvolto, come accade nei Cuadros de fiestas y costumbres (1808-1812), si fa aedo del perturbante, pensato da Freud come «un qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è affiorato». Padre di Van Gogh e di Munch, dà un volto alla bruttezza che abitiamo e che ci abita. Assume – e reinventa – la realtà nelle sue imperfezioni, sgrammaticature, inesattezze.
Voce di incubi, Goya evoca la storia come disastro senza redenzioni. Ausculta la follia sottesa a ogni gesto normale. Fa affiorare brandelli del dolore che affligge le nostre vite. Filosofo del male, a differenza di Bosch, non porta gli uomini nell’inferno, ma introduce l’inferno nella quotidianità degli uomini. Regista dell’assurdo, nei Caprichos (1797-1799), rende fantasmatici volti e corpi. Cronista dell’immanenza, dipinge un universo straziante, disperato e dolente. Fotoreporter ante litteram, sperimenta una deformazione caricaturale e morale di tutto ciò che, nell’uomo, è automatismo, pregiudizio, vizio. Poeta del sangue, sembra filmare le Malebolge in bianco e nero, popolate di vittime e di carnefici, lambite da esorcismi e da demoni.
Benvenuti in un teatro della crudeltà, in cui confluiscono mondo e retromondo. È uno spettacolo bruciante, stravolto, cupo, luttuoso, costellato di anime in pena. Il ritratto di un’Apocalisse imminente. Che ci parla anche di una condizione conflittuale metastorica. La guerra come minaccia endemica e permanente: totalità che comprende e trascende la vita nelle sue contraddizioni, unità in cui le lacerazioni si compongono, passaggio a vuoto, incontrollabile latenza di ogni regola, disordine, smarrimento, sconquasso indistinto: siamo sull’orlo di un vulcano che, da un momento all’altro, potrebbe eruttare lava infuocata, distruggendo le nostre fortezze in poche ore.
È qui il talento inarrivabile, segretamente politico e attuale di Goya. Fare entrare in contatto con la disumanizzazione dell’umano. È quel che sta accadendo nell’Occidente, in questi anni, su tanti fronti: dall’Ucraina a Israele. «Il prevalere del disumano che – come ha recentemente sottolineato il filosofo Biagio de Giovanni – sta dentro l’umano, non gli si contrappone come il male al bene».