La Lettura, 31 ottobre 2023
L’epoca del cinismo
Lui forse non sarà d’accordo ma molto o tutto nella vita e nell’opera di Peter Sloterdijk, 76 anni, si può leggere come un tentativo di non soccombere al cinismo.
Il grande filosofo tedesco ci accoglie nella sua casa modernista nel Westend berlinese, tra i viali alberati abitati da decenni dagli intellettuali e dalla miglior borghesia tedesca, dove la Kudamm digrada verso il Wannsee. È seduto dietro al Mac e sta leggendo una conversazione di 34 pagine tra Daniel Kehlmann e Zadie Smith, uscita poche ore prima sullo «Spiegel»: «Quanto sarà la vostra, di intervista?», scherza. Ha tanti libri nei tre saloni-studio da far pensare a Umberto Eco, una collezione di elefanti (presumibilmente i suoi amuleti), alle pareti alcune opere di Anselm Kiefer. Tra queste, una gigantesca cartolina, arrivata a destinazione con due sole scritte: «Anselm Kiefer, Paris; Peter Sloterdijk, Karlsruhe». Sta per partire per l’Italia, per il Friuli, dove l’attende il premio Udine Filosofia (ricevuto il 28 ottobre, ndr). Come spiega lo stesso Sloterdijk nella prefazione al libro di Stefano Vastano, Filosofia dell’effervescenza, appena uscito da Mimesis e dedicato al suo pensiero, ci sono filosofi che da giovani hanno avuto un’intuizione e ci hanno costruito un sistema. Lui no. In compenso, non c’è argomento della vita pubblica che non l’abbia interessato. La lingua è il suo dominio, e sentirlo parlare in modo limpido – senza mai alzare la voce, tra provocazioni, spiegazioni come solo chi è stato a lungo professore sa fare, fulminanti conclusioni – non si può non pensare a quanto la filosofia tedesca sia imparentata con la poesia. Chiederà solo una piccola pausa, «pochi minuti, devo finire la mia parte in cucina» dove la moglie sta ultimando la cena: aspettano ospiti. È di parola, in tre minuti tornerà.
Peter Sloterdijk, l’opera che le ha dato la fama è La critica della ragion cinica, del 1983. Lei fa molto riferimento al cinismo degli anni Venti e Trenta. Vede paralleli? Viviamo in un’epoca neocinica?
«L’aspetto decisivo degli anni di Weimar, all’ombra della Prima guerra mondiale, è la completa distruzione della ragione contemplativa. C’erano solo polemiche, ideologie e programmi di lotta. Le persone che tornarono dalla guerra non fecero ritorno alla pace, ma entrarono in una sorta di proseguimento della guerra con mezzi diversi. Credo che il sintomo centrale di quest’epoca si sia manifestato proprio in Italia con il fascismo, poiché il fascismo è nient’altro che una manifestazione cristallina della mancanza di volontà di de-mobilitare o dell’incapacità di farlo. Questa sindrome era presente, naturalmente, anche nel leninismo. Non bisogna dimenticare che l’Unione Sovietica è stata fondata solo sei settimane dopo la marcia su Roma. Queste sei settimane rappresentano il periodo di incubazione per l’intero decennio successivo».
Vede un simile rischio ora?
«Il parallelismo risiede nel fatto che, dopo la fine del confronto tra le grandi potenze, ossia tra gli Stati sovietici e l’Occidente, anche l’era monopolare sta giungendo al termine. C’è una massiccia corsa agli armamenti: i cinesi, i russi, gli indiani, gli arabi. Una straordinaria cacofonia di conflitti ideologici. E naturalmente, come negli anni Venti, una nuova fioritura del risentimento e del cinismo. E anche riemersa la figura dell’impostore».
Lo può spiegare meglio?
«Walter Serner scrisse in quell’epoca un breviario per impostori, trasformando la famosa frase di Madame de Pompadour, “Après nous le déluge”, in: “Dopo di noi, la gonorrea”. Abbiamo toccato vette altissime anche noi in questo senso. Cos’altro è la frase di Vladimir Putin: “Se avessimo voluto uccidere Aleksej Navalny, l’avremmo fatto”, detta dopo il fallito avvelenamento? O pensate a Donald Trump, che ha detto che avrebbe potuto sparare alla gente sulla Fifth Avenue e non sarebbe successo nulla».
Putin è il più grande cinico del mondo?
«Non credo, non è abbastanza intelligente. Tuttavia ha chiari momenti di cinismo, come quando ha premiato con onorificenze speciali le truppe che hanno perpetrato il massacro di Bucha, rovesciando tutto quanto è mai esistito in termini di etica o di etica militare o di senso comune. Direi però che si muove più verso la perversione che verso il cinismo. Si tratta di un problema generale russo, la distorsione. La distorsione di tutte le cose va oltre il cinismo, perché il cinico sa quali principi morali sta violando, quali sta negando e di quali si sta facendo beffe. I russi pro-putiniani vivono in una sorta di brodo primordiale che viene cucinato nell’ideologia russa da cent’anni».
Autoritarismo. E torniamo alla figura del Grande Inquisitore di Fëdor Dostojevskij, di cui lei ha scritto...
«Sì, Dostoevskij l’ha rappresentato molto bene: l’anima dell’autocrazia russa è in sé la perversione, la distorsione. La cosa straordinaria della perversione è che non ha bisogno dell’inconscio: non c’è bisogno di interpretare. Ecco perché la psicoanalisi in Russia non ha mai attecchito».
Putin sa di mentire e lo sappiamo anche noi. Hamas mente e lo sappiamo. Perché gli crediamo?
«Il meccanismo è quello che Vladimir Lenin aveva compreso, e che capisce bene anche Putin. In altre parole, il mondo è pieno di “utili idioti”. O, per essere più precisi, è pieno di semplici idioti che si lasciano influenzare più o meno in buona fede, e di “utili idioti” che simpatizzano con questi sistemi di menzogne pensando di trarne vantaggio. È appena uscito in Francia un libro di Pierre-André Taguieff (Le nouvel âge de la bêtise, L’Obsevatoire, ndr) che descrive come la stupidità accademica stia dilagando. Prendiamo tutto questo parlare di “discorsi” o “narrazioni”: ecco, ogni volta che si sentono pronunciare queste due parole, si può star certi che comparirà anche qualche sciocchezza».
Vede una crisi nelle università?
«Ho studiato il fisiologo russo Ivan Pavlov. Un torturatore di animali. Sono noti i suoi esperimenti, quando prima di dar da mangiare ai cani scampanellava, e dopo un po’ di tempo solo scampanellando i cani già cominciavano a salivare. Quello che si sa meno è che ha tentato di applicare questa rozza, materialistica teoria dei riflessi condizionati ai comportamenti delle società. Ebbene, riguardo agli intellettuali, potrebbe funzionare».
Faccia qualche esempio.
«L’abbiamo appena visto con Slavoj Žižek all’apertura della Buchmesse. Žižek ha fortemente criticato gli eventi in Israele ma ha anche ricordato che c’è un contesto. Ed ecco che è partito il flusso di saliva da parte degli “utili idioti”, che volevano manifestare “la necessaria forma” di indignazione. Forse si dovrebbe scrivere un libro sulla “Saliva degli intellettuali”, perché in effetti scorre in ogni occasione. In altre parole, sto dicendo che si è indebolito ciò che costituiva l’essenza dell’intellettualità: l’attitudine alla distanza, al ritiro, lo sforzo di neutralizzare la propria soggettività arrabbiata ed entusiasta».
Lei criticò la decisione di Angela Merkel di lasciare entrare un milione di migranti nel 2015. Allora ci fu molto scalpore, oggi in tanti le danno ragione.
«All’epoca avevo fatto una valutazione critica, ma ambivalente. Avevo detto che Merkel, offrendo all’improvviso una generosa ospitalità, ha voluto dare un’immagine positiva della Germania nel mondo. Ci riuscì, ma allo stesso tempo è stato un errore lasciare entrare nel Paese un milione di aperti o latenti antisemiti. Lo vediamo oggi, quando ci sono interi quartieri a Berlino dove i membri di comunità di origine araba o mediorientale sono così lontani dal “consenso tedesco” che la loro integrazione è quasi impossibile».
È più complicato questo per la Germania, con il suo passato nazista?
«Sì, perché la Germania è e rimarrà il Paese della Shoah, con un particolare imbarazzo morale. E l’ombra della Shoah si proietta anche sui futuri conflitti. Ora abbiamo un’enclave di concittadini che diventano un corpo estraneo a causa del loro orientamento apertamente ostile agli ebrei, motivato da questioni religiose, culturali o razziste. E sarà molto difficile isolare questo conflitto nei prossimi anni».
Un’ultima domanda. Lei si interessa di intelligenza artificiale. Siamo arrivati al post-umanesimo?
«Ciò che sta arrivando ci costringe a riflettere su che cosa la lingua e la scrittura abbiano finora fatto di noi. Aristotele ha detto che è la parola che caratterizza l’essere umano. Ma cosa significa questo, in realtà? Che, di fatto, siamo già stati colonizzati dall’intelligenza artificiale. Il linguaggio è un fenomeno dell’intelligenza artificiale che supera l’intelligenza animale; e su questo si è inoltre innestata la scrittura (la grammatica, le prosodie, la poesia). Ciò significa che, in quanto esseri alfabetizzati, abbiamo già due strati di intelligenza artificiale posti sopra la base di un’intelligenza animale. Ora arrivano anche i meccanismi digitali a colonizzare la sfera umana. E questo non può essere evitato. Possiamo solo fare come abbiamo fatto finora: interpretare, attraverso il concetto dell’educazione, questa colonizzazione come auto-realizzazione. Ce la faremo a interpretare così la coabitazione con le macchine? Lo spero. Io credo che nuovi concetti educativi possano ancora emergere. E che il post-umanesimo sarà, in un certo senso, ancora un umanesimo».