Corriere della Sera, 31 ottobre 2023
La figlia di Paolo Villaggio: «Fuggì dal cinema alla prima di Fantozzi
Elisabetta Villaggio, chi era sua papà Paolo?
«Una persona normale. Curioso, iperattivo, amava i viaggi, la compagnia degli amici».
Chi erano i suoi amici?
«Con Paolo Fresco, che sarebbe diventato amministratore delegato della Fiat, erano stati compagni di classe al liceo e da lì legati per sempre, per quanto diversissimi. Fabrizio De André era il figlio di una coppia di amici dei suoi genitori, avevano fatto delle vacanze in montagna da bambini, si erano persi per poi ritrovarsi da ragazzi, uniti da una stessa inquietudine: entrambi frequentavano l’università senza voglia, per compiacere la famiglia; entrambi non vedevano l’ora di lasciarla per vivere da artisti».
È vera la storia di suo padre che per scherzo portò De André a mangiare un topo?
«La raccontavano spesso, ogni volta con una sfumatura diversa. Forse un fondo di verità c’era ma non credo che De André avesse finito per mangiare un topo intero».
Altri amici?
«Di quelli conosciuti sul lavoro e frequentati anche fuori, senz’altro Ugo Tognazzi e Vittorio Gassmann».
Com’è stato essere, in senso letterale, la figlia di Fantozzi?
«Paolo Villaggio non è stato il papà che ti leggeva le favole prima di andare a dormire. Né uno di quelli che ti accompagnava a scuola o veniva ai colloqui con gli insegnanti».
Troppo impegnato?
«A scuola non lo volevo io, mi vergognavo del papà famoso».
Ai suoi compagni piaceva?
«Molto di più ai docenti. Tranne una prof delle medie, che lo considerava alla stregua di un pagliaccio».
Come arrivaste da Genova a Roma?
«Grazie a Maurizio Costanzo, che aveva chiamato papà a fare i suoi spettacoli in un piccolo teatro di Trastevere, il “7x8”. Lui e mia mamma arrivarono a Roma alle fine del 1967, io e mio fratello dopo le vacanze di Natale, nel 1968. Io avevo otto anni e mezzo».
Come divenne famoso?
«Un giorno viene convocato nella sede Rai di viale Mazzini da Giovanni Salvi, che era direttore di Rai1. L’aveva visto al “7x8” nei panni del Professor Kranz e voleva proporlo per un programma che stava per nascere e che sarebbe stato realizzato a Milano».
Quelli della domenica?
«Esatto. Il problema è che il resto dei dirigenti Rai non lo ritenevano all’altezza. Anzi, erano convinti che mio padre non avrebbe funzionato affatto in tv. Salvi si impose e fu un successo immediato».
Che cosa ricorda della genesi del Ragionier Fantozzi?
«Papà scriveva queste strisce che uscivano settimanalmente sull’Europeo. E la Rizzoli, a un certo punto, gli commissionò il libro. L’estate prima di girare il primo film, in vacanza al mare, ci leggeva gli sketch per verificare che facessero ridere».
In famiglia vi facevano ridere?
«Allora non così tanto. Oggi ho riletto il primo Fantozzi prima di iniziare a scrivere il mio libro e l’ho trovato irresistibile. Anche a mio padre il personaggio del Ragioniere piacque più a distanza di decenni che appena uscito».
Che ricordi ha degli esordi del film?
«27 marzo 1975, la prima del primo Fantozzi, al cinema di piazza Barberini, a Roma, con la sala gremita: invitati vip, amici e colleghi... Appena si spensero le luci e iniziò la proiezione, mio padre scappò dalla sala portandosi via anche mio fratello e corse a prendere la macchina».
Per andare dove?
«Lontano dal centro storico. Raggiunse due sale, una a Piazza San Giovanni e un’altra ancora più in periferia. Era convinto, e aveva ragione, che il successo del film passasse attraverso il gradimento del popolo e voleva fare la prova di persona. Solo quando in entrambe le sale più periferiche assistette alle risate del pubblico, ecco, soltanto allora si calmò, riprese la macchina e tornò felice al Barberini”.
Aveva scelto lui gli altri attori?
«Credo li avessero scelti la produzione e il regista Luciano Salce, anche se lui aveva senz’altro avuto modo di assistere ai provini e di dire la sua. Fu però papà a proporre Milena Vukotic per il ruolo di Pina Fantozzi a partire dal terzo film, quando Liù Bosisio aveva deciso di lasciare».
Come mai la Bosisio aveva lasciato?
«Dopo il successo dei primi due Fantozzi, a una rappresentazione delle tragedie greche di Siracusa, durante una recita dal pubblicò qualcuno le aveva urlato “Pina!”. Alla Bosisio, una grandissima attrice che teneva al teatro, a quel tipo di teatro, molto di più di quanto non tenesse al cinema, tanto bastò per dismettere per sempre i panni della signora Fantozzi».
Toccò alla Vukotic.
«Mio papà la adorava perché veniva dai film di Buñuel e di Fellini. C’era anche una sorta di timore reverenziale, infatti le disse: “Non ti offendere se ti chiedo di fare questo personaggio e se ti chiedo di farlo in un certo modo. Fai finta che sia una specie di cartone animato, perché così dev’essere la signora Pina!».
È vero che all’inizio anche Anna Mazzamauro era stata provinata come possibile Pina?
«Sì ma non era adatta. Poi fece dei provini talmente belli che la presero per la parte della Signorina Silvani».
Bosisio, Vukotic, Mazzamauro, il mitico Filini interpretato da Gigi Reder: erano amici anche nella vita reale?
«Lavoravano insieme ma fuori non si frequentavano mai. Credo che lontano dal set, in qualche rarissima cena, mio papà abbia incrociato solo la Vukotic».
Suo papà ha mai odiato Fantozzi?
«Non credo. Anzi, sono sicura di no. Certo, ha girato più Fantozzi di quanti avrebbe voluto e alcuni episodi, alla fine, sono un po’ tirati per i capelli. Però funzionava e aveva successo, per cui per fare le cose che piacevano a lui finiva per mettere la firma su contratti che prevedevano qualche Fantozzi in più».
La politica?
«Era di sinistra, interessato soprattutto ai temi legati alle libertà individuali. Da qui le due volte che decise di candidarsi, una con Democrazia proletaria di Mario Capanna, l’altra coi Radicali di Marco Pannella. I politici però non gli piacevano, non li considerava sinceri».
Il fatto che la sinistra lo snobbasse lo faceva soffrire?
«Non credo. Soffriva per il trattamento di molti critici, questo sì. Non lo diceva apertamente ma la cosa gli dava fastidio, ne sono certa. Ha però avuto tempo e modo di riabilitarsi ai loro occhi lavorando con Fellini, con Olmi e soprattutto vincendo il Leone d’Oro alla carriera nel 1992».
Aveva paura della morte?
«Non lo diceva ma da come ne parlava si capiva che questa faccenda di morire non gli piaceva affatto, anzi. Un giorno, mentre pranzavamo, disse: “Non voglio essere sepolto, non voglio essere cremato. Voglio una cosa diversa: essere bollito”».
È vero che invidiava a De Andrè il funerale?
«Verissimo. Quando morì Fabrizio, i suoi funerali gli erano rimasti impressi. Per l’affetto totale e incondizionato della gente presente a quell’ultimo saluto. Disse che anche lui avrebbe voluto dei funerali in quel modo».
Li avrebbe avuti.
«Sì, li avrebbe avuti. L’affetto della gente non l’ha abbandonato quand’era vivo. E da quello che vedo non l’ha abbandonato neanche ora che è morto da più di sei anni».
Le battute di Fantozzi sono ancora intergenerazionali, interclassiste, superano i confini regionali, le recitano ancora tutti. Immagino che anche voi figli...
«Noi no, mai. Soprattutto in pubblico. Io e mio fratello ascoltavamo gli altri dire “mi faccia l’accento svedese”, “Ragioniere batti lei!” ma noi, per una ragione di pudore, trattandosi di nostro padre, ci siamo sempre astenuti».
Che cosa le ha lasciato?
«Tra le tante cose, anche qualcuna che non ho visto. C’è la bozza di un libro incompiuto, qualche appunto, con un titolo: “Il segreto di Ghirlando”. Lo custodisce miamam ma, non mi ha mai permesso di dargli un’occhiata».