Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  ottobre 31 Martedì calendario

Campioni che licenziano il papà

Uccidere il padre non è soltanto una tentazione edipica ma, simbolicamente parlando, sta diventando quasi una disciplina olimpica. Jannik Sinner non ha mai vinto tanto come da quando ha cambiato guida tecnica. E il suo dioscuro Matteo Berrettini è solo l’ultimo campione ad avere abbandonato quel padre putativo (a volte, come vedremo, è anche un padre vero e proprio) che è il coach: addio a Vincenzo Santopadre dopo tredici anni pieni di tutto. Se lui è sceso, Sinner sta nella stratosfera dopo l’abbandono di Riccardo Piatti. «Jannik era parte della famiglia, però nelle famiglie non è obbligatorio rimanere», dice “l’ex”. «Quando i figli restano a casa, devono fare come dico io. Altrimenti possono andare a studiare all’estero».Tra metafore e contratti, atleti e allenatori si lasciano e si prendono più degli adolescenti in amore. Mancano pochi mesi a Parigi 2024 ed è tutto un ribaltamento di ruoli e posizioni. Il salto edipico più lungo, del resto è la sua specialità, è quello di Larissa Iapichino: prima è zompata via dall’ombra ingombrante della mamma, Fiona May, poi ha scelto il suo papà vero, quello di sangue, cioè Gianni Iapichino, come maestro di balzi. «Siamo bravi a tenere separate le due sfere» dice papi. «Mai potrei rinunciare a lui» soggiunge Larissa. Quest’anno sono arrivati un argento europeo e un record italiano indoor. Il resto a Parigi, speriamo.Vincere, perdere, prendersi, mollarsi. Ma cos’è questa sindrome del non ti sopporto più? Perché Crono, e non solo il cronometro, divora così i propri figli? Cosa sta succedendo in queste strane famiglie allargate che cominciano in palestra, in pista, sul campo, poi proseguono in salotto e si frantumano o si rimettono insieme nello spogliatoio? «Bisogna distinguere tra nuove sfide e nuove scuse». Alberto Cei, psicologo dello sport, prova a illustrare la complessità del problema: «A volte si cambia allenatore perché ci si conosce troppo, perché ripetersi stanca o annoia, non è più motivante. Lo diceva pure Trapattoni: dopo cinque anni, gli atleti non ti seguono più. Ma un nuovo tecnico può anche rappresentare uno shock positivo in un periodo di crisi: penso a Jacobs e a Berrettini. La novità come stimolo necessario. Infine, non si dimentichi che un campione può aver bisogno di “uccidere il Buddha”, cioè andare oltre il maestro, superarlo grazie ai suoi insegnamenti. Qui si parla di situazioni assolute: con te sono già andato sulla Luna, mi ci hai portato, ora come faremo a tornarci? Tra noi due, cosa potrebbe mai esserci di più?».Tra chi guida e chi è guidato agisce una delicatissima dinamica, fatta anche di luce e buio. Grandi campioni e grandi allenatori a volte non si reggono, accadde a Roberto Baggio con Marcello Lippi. Oppure ci sono coppie che dalla cucina e dalla camera da letto decidono di restare stretti stretti anche nello sport, per un matrimonio senza soluzione di continuità. Un marito come allenatore l’ha appena scelto Antonella Palmisano, mentre il casus belli tra Arianna Fontana e la Federghiaccio fu il mancato ingaggio dello sposo, Anthony Lobello, come coach azzurro.Ma siamo poi sicuri che sia una buona idea portare il lavoro a casa e la casa al lavoro? Chi potrebbe mai continuare a sopportarsi, a certe condizioni?«Mi sembra che il vero problema sia la demonizzazione della figura del maestro». Mauro Berruto, l’uomo che condusse la pallavolo maschile sul podio olimpico di Londra 2012, non allena da otto anni, ma certe dinamiche restano il suo pane. «Tra maestri e allievi scatta un meccanismo affascinante e complicatissimo. Si possono creare meraviglie o realizzare disastri senza pari. L’atleta che fugge dal suo coach, e questo forse vale più per gli sport individuali, a volte è vittima del demone del risultato a breve termine, non gli importa più della prospettiva, della programmazione, della simbiosi che nel caso si era già creata. Talvolta gli atleti cercano istruttori, non educatori: i primi creano dipendenza, i secondi portano all’indipendenza, dunque alla vera crescita». Segue una confessione che va creduta: «L’obiettivo finale del bravo allenatore è essere sempre meno importante. Chi fugge, chi cambia, temo che invece lo voglia usare come amuleto. O come una scusa, o un alibi, se poi le cose andranno male». Ma se anche un memorabile campione olimpico come Marcell Jacobs non ha saputo resistere alla sirena di un altro coach – magari è vero amore, magari infatuazione - e se un giovane colosso del nostro sport come Sinner ha ascoltato il richiamo della novità (e i risultati gli stanno dando ragione), forse non si corre via dall’allenatore soltanto per scappare. Forse Edipo non è solo una tragedia. Forse può diventare una commedia a lieto fine.