il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2023
De Benedetti: vanità, miliardi e bonbon
Pubblichiamo uno stralcio tratto da “Il romanzo del giornalismo italiano” di Giovanni Valentini, da oggi in libreria per La nave di Teseo
Era il 18 gennaio del 1988 quando Carlo De Benedetti, ancora socio di minoranza del Gruppo editoriale L’Espresso, annunciò a Parigi la scalata alla Société générale de Belgique.
La holding belga, fondata a Bruxelles nel 1822, possedeva mezzo Congo attraverso partecipazioni in vari settori: carbone e siderurgia come nell’Ottocento, ma anche trasporti, chimica, tessile, cemento, costruzioni metalliche. Negli ambienti di sinistra, veniva considerata l’archetipo del capitalismo disumano, ossessionata dalla sete di denaro, ma nello stesso tempo accusata di essere un ente rigido e burocratico, allergico all’innovazione. Un boccone prelibato, dunque, per l’Ingegnere, istigato dal suo chaperon Bernard Guetta, giornalista francese esperto di geopolitica. A quella data, come raccontò Giuseppe Turani in un articolo pubblicato su L’Espresso in aprile, De Benedetti aveva già comprato il 18 per cento delle azioni della Vieille Dame, com’era chiamata la Sgb, e si apprestava a lanciare un’Opa per il 15%. “In questo modo,” spiegava Turani, “sarebbe arrivato al 33% e si sarebbe posto come azionista di riferimento, in pratica come padrone e gestore.” Ma, a tre mesi di distanza, che cosa rimaneva dell’atmosfera eccitata di quei giorni? “Nulla, soltanto tre fallimenti,” rispondeva Turani nel suo articolo. Con la spregiudicatezza e l’arroganza che gli hanno fatto perdere tante sfide finanziarie, l’Ingegnere era partito da Torino per andare a Bruxelles con una scatola di cioccolatini Peyrano sotto il braccio e una spavalda dichiarazione che gli sarebbe costata cara: “La ricreazione è finita!”
Fatto sta che quelle vecchie volpi degli azionisti di Sgb, durante il weekend, decisero un aumento di capitale per diluire così la quota di De Benedetti. Per lui, quindi, il primo fallimento fu quello di essere costretto a puntare sul 51%, con una spesa molto più alta. Il secondo, non avendo raggiunto quell’obiettivo, consisteva nel fatto che l’Ingegnere non aveva più il controllo della Società e, anzi, nemmeno un consigliere al vertice della holding. E il terzo fallimento, concludeva Turani, era stato quello di trovarsi di fronte all’ipotesi di una cogestione: uno smacco per un finanziere come lui, abituato ad avere pieni poteri e a comandare anche solo con il 25%. La scalata alla Sgb era stata un tentativo scaltro e audace, fallito per una scatola di cioccolatini. Fu proprio quello, Lo smacco, il titolo della nostra copertina, con una foto d’archivio in cui De Benedetti appariva seduto su una poltroncina gialla, affranto, piegato in due con la fronte poggiata su una mano e una cartellina verde nell’altra. Il giorno stesso in cui uscì L’Espresso mi chiamò al telefono inviperito, coprendomi di improperi. A farlo infuriare di più era stata l’immagine che lo ritraeva in un atteggiamento di sconforto, non riusciva a coglierne il significato e l’effetto simbolico: “Che cosa c’entra quella foto con tutta questa storia? Dove l’avete presa? È un affronto personale!”. Al contrario, Caracciolo gongolava di divertimento. E si complimentò con me per quella copertina. Lui aveva il pregio della souplesse e la classe aristocratica del Principe rosso. Ma soprattutto era un editore per mestiere e passione civile. E poi, il triplice fallimento dell’operazione non doveva essere dispiaciuto neppure a suo cognato, Gianni Agnelli. In realtà, il primo titolo che avevamo predisposto era Waterloo. All’ultimo momento, però, preferii cambiarlo per non infierire su CdB, come lo chiamavano in codice Carlo ed Eugenio con una certa nonchalance. La bozza della copertina originaria, riprodotta a colori su carta lucida, rimase nella vaschetta di plastica sulla mia scrivania, fino al termine della mia direzione. E lì la lasciai, in eredità al mio successore Claudio Rinaldi, insieme a un’altra – a suo modo storica – che avevamo pubblicato il 14 febbraio ’88 e di cui andavo particolarmente fiero. Raffigurava il Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, seduto su una poltrona di velluto rosso sullo sfondo di una spiaggia caraibica. Il titolo di quel fotomontaggio recitava Ultima spiaggia. Nel mio editoriale, intitolato a sua volta Il governo del Governatore, di fronte alla caduta di Giovanni Goria, al disfacimento del sistema politico e al “ballo” della lira sui mercati internazionali, auspicavo la nomina di Ciampi a presidente del Consiglio. Lui allora mi telefonò: “Lei sa che non sono abituato a chiamare i direttori dei giornali. Ma questa copertina mi ha colpito. Vorrei sapere se è una vostra idea o se avete raccolto qualche ‘voce’ sul mio conto.” “No, più che un’idea è una nostra proposta. Un ballon d’essai. Ma noi ci auguriamo proprio che si realizzi,” gli risposi. Passarono cinque anni prima che l’ex Governatore fosse chiamato a Palazzo Chigi. Poco tempo dopo l’elezione a Capo dello Stato nel ’99, il presidente mi fece invitare a cena al Quirinale e, salendo la scaletta per raggiungere l’altana da dove si vede tutta Roma, m’intimò amabilmente: “Da stasera, mi devi dare del tu. Altrimenti, non t’invito più!”. L’ultima volta che lo incontrai quando era ancora in carica, nella tenuta di Castel Porziano, mi congedò tenendomi i polsi con le mani: “Mi raccomando! Tu sei il più giovane della vecchia guardia”.
L’avvento di CdB Una brutta mattina del 1989 Scalfari convocò Marco Benedetto e me a Repubblica per annunciarci formalmente la decisione di cedere il Gruppo a De Benedetti. Fu un discorso scarno e rapido, durante il quale Eugenio tradì una qualche emozione: “Io, come sapete, non ho eredi maschi. Le mie due figlie non hanno alcuna intenzione di occuparsi di editoria. Ormai il Gruppo s’è allargato troppo per continuare a fare da solo e ha bisogno di rafforzarsi sul piano finanziario. De Benedetti è già nostro socio, è un amico e credo che sia la persona migliore alla quale possiamo passare il testimone.” Per quanto la “voce” circolasse da tempo, per noi fu un colpo di scena. Marco e io ammutolimmo. L’operazione era decisa e non restava altro che prenderne atto. Spiega Paolo Panerai, giornalista e fondatore della Casa editrice Class, nel suo libro intitolato Le mani sull’informazione: “Quotato in Borsa, forte di un settimanale (L’Espresso, nda) che da poco aveva raggiunto l’apice della sua fortuna superando Panorama – e non se ne vedevano ancora le crepe – ricco del 50% di quello che sarebbe diventato il secondo quotidiano italiano di fatto gestito da Caracciolo e Scalfari nonostante la governance dell’alternanza ai vertici del consiglio con gli uomini della Mondadori, il gruppo L’Espresso-Repubblica era il target ideale per De Benedetti, sempre più schierato politicamente a sinistra”. Eugenio aveva prevenduto la sua quota strategica, la seconda del patto di sindacato dopo quella di Caracciolo, spuntando per lealtà le stesse vantaggiose condizioni per lui e per gli altri soci: Aldo Bassetti, estromesso a suo tempo dalla sua famiglia per aver acquistato azioni dell’Espresso; Cristina Busi, vedova dell’imprenditore bolognese concessionario della Coca-Cola in Emilia Romagna, compresa la Riviera adriatica; l’industriale farmaceutico, Claudio Cavazza, inventore della carnitina che – secondo la leggenda – aveva consentito alla nostra Nazionale di calcio nel 1982 di vincere i Campionati del mondo in Spagna e grande collezionista di opere d’arte; Mario Ciancio, direttore-editore del quotidiano La Sicilia di Catania, proprietario di alcune emittenti televisive e poi della Gazzetta del Mezzogiorno di Bari, destinato a diventare nel ’96 presidente della Fieg (la Federazione editori di giornali) con l’appoggio del Principe rosso. A Scalfari, l’affare fruttò circa 80 miliardi delle vecchie lire su un totale di 450: una “paccata di soldi”, come gli avrebbe rinfacciato in seguito De Benedetti in un’infelice e sgradevole sortita televisiva, nel gennaio 2018, durante la trasmissione Otto e mezzo di Lilli Gruber su La7. Ma anche Caracciolo e i soci minori, in virtù della mossa di Eugenio, realizzarono un bel guadagno. Così l’Ingegnere strapagò l’acquisto del Gruppo L’Espresso e poté finalmente far stampare “Editore”, sotto il suo nome e cognome, sul biglietto da visita.