Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  ottobre 30 Lunedì calendario

Come è nato Il nome della Rosa


Tratto da
Confessione di un giovane romanziere di Umberto Eco (La nave di Teseo, traduzione di Riccardo Fedriga e Anna Maria Lorusso, pagg. 224, euro 20)

All’inizio del 1978 una mia amica, che stava lavorando per un piccolo editore, mi ha detto che stava chiedendo a non-romanzieri (a politici, a sociologi, a clinici) di scrivere un breve racconto poliziesco. Le ho detto che non ero interessato alla scrittura creativa e che ero sicuro di essere assolutamente incapace di scrivere buoni dialoghi. Avevo concluso (non so perché) che comunque, se per caso avessi dovuto raccontare una vicenda poliziesca, ne sarebbe uscito un volume di cinquecento pagine, e la vicenda si sarebbe svolta in un monastero medievale. La mia amica mi disse educatamente che non era interessata a un tomo commerciale poco ispirato, e il nostro incontro fini lì.
Appena tornato a casa, mi misi a frugare in un cassetto e ritrovai un appunto scritto qualche anno prima dove avevo annotato alcuni nomi di monaci. Il che vuol dire che in una qualche piega della mia mente l’idea di un romanzo stava già crescendo senza che me ne rendessi conto. A quel punto ho pensato che sarebbe stato interessante avvelenare un monaco mentre stava leggendo un libro misterioso, e lì mi fermai. E così iniziai a scrivere Il nome della rosa.
 
Quando il libro è uscito mi è stato chiesto perché avevo deciso di scrivere un romanzo e le ragioni che davo (che variavano a seconda del mio umore) erano probabilmente tutte vere – segno che erano tutte false. Alla fine avevo concluso che la sola risposta sincera era che a un certo momento della mia vita mi era venuta voglia di farlo – e credo che quella fosse una spiegazione sufficiente e ragionevole.
Quando in un’intervista mi chiedono “Come scrive i suoi romanzi?”, di primo acchito rispondo “Da sinistra a destra”. Capisco che non è una risposta soddisfacente e che può produrre un certo spiazzamento nel caso venga data in un paese arabo o in Israele. Ora ho modo di dare una risposta più dettagliata.
Nello scrivere il mio primo romanzo ho imparato alcune cose. Anzitutto “ispirazione” è una brutta parola che i cattivi scrittori usano per sembrare artisticamente rispettabili. Come dice il celebre adagio inglese “genius is ten percent inspiration and ninety percent perspiration”, il genio è fatto al dieci per cento d’ispirazione e al novanta per cento di traspirazione, sudore. Si racconta che il poeta francese Lamartine avesse descritto a più riprese le circostanze magiche in cui era nata una delle sue poesie migliori; sosteneva che fosse nata come per folgorazione una notte che passeggiava in un bosco. Poi alla sua morte hanno trovato nel suo studio molte versioni di quella poesia, scritta e riscritta nel corso degli anni.
I primi recensori de Il nome della rosa avevano detto che era stato scritto sotto l’influenza di una luminosa ispirazione ma che, a causa delle sue difficoltà concettuali e linguistiche, era per un ristretto numero di lettori. Poi, quando il libro ha iniziato a vendere un inatteso numero di copie, milioni di copie, gli stessi critici hanno scritto che, per mettere insieme un bestseller destinato a un successo di massa, dovevo aver seguito una ricetta segreta.
Più tardi hanno scritto che il successo era dovuto a un programma computerizzato – dimenticando che i primi personal computer con un programma di scrittura maneggevole erano apparsi solo all’inizio degli anni Ottanta, dopo che il mio libro era già uscito. Quando lo scrivevo, negli anni 1978-1979, anche negli Stati Uniti circolavano solo dei piccoli computer (mi pare si chiamassero Tandy) che nessuno avrebbe potuto usare se non per scrivere qualche lettera. (…)
Visto che parliamo di lentezza dell’ispirazione, devo dire che Il nome della rosa mi era costato solo due anni di lavoro perché non avevo dovuto fare alcuna ricerca sul Medioevo. Come ho detto, la mia tesi era stata sull’estetica medievale e in seguito avevo continuato ad approfondire questi temi. Avevo visitato tante abbazie romaniche e cattedrali gotiche, e così via. Quando ho deciso di scrivere il romanzo, è stato come se avessi aperto un armadio dove per quasi trent’anni avevo ammassato centinaia di schede. Tutto quel materiale era ai miei piedi, e dovevo solo scegliere ciò di cui avevo bisogno.
Per i romanzi successivi la situazione è stata diversa (anche se, se scelgo un certo argomento, è perché con quello ho già qualche familiarità). Ecco perché i romanzi successivi mi hanno preso più tempo: otto anni per Il pendolo di Foucault, sei per L’isola del giorno prima e Baudolino. Per La misteriosa fiamma della regina Loana ci ho messo solo quattro anni perché riguarda le letture che ho fatto da bambino fra gli anni Trenta e Quaranta, e ho potuto utilizzare molto materiale che avevo a casa, come albi di fumetti, registrazioni, riviste o quotidiani – in breve, la mia collezione completa di ricordi, nostalgia e cianfrusaglia.
Cosa faccio negli anni di gestazione di un romanzo? Raccolgo documenti, visito luoghi e faccio mappe, schizzo la pianta interna di edifici o, come nel caso de L’isola del giorno prima, di navi; e talora disegno i volti dei miei personaggi. Per Il nome della rosa ho disegnato i volti di tutti i monaci. Insomma, passo questo periodo di preparazione come in un castello incantato o, se preferite, in uno stato di rifugio autistico dal mondo reale. Nessuno sa che cosa stia facendo, neppure i membri della mia famiglia o gli amici più intimi. Faccio finta di fare altro, ma cerco in realtà continuamente idee, immagini, parole per la mia storia. Voglio dire che se, mentre immagino vicende ambientate nel Medioevo, vedo passare per strada una macchina rossa che attira la mia attenzione, annoto mentalmente (o su un foglio) quel colore, che prima o poi giocherà un ruolo o apparirà, che so, nella descrizione di una miniatura.