Corriere della Sera, 30 ottobre 2023
I coloni che pian piano hanno occupato il terreno
All’inizio parve una cosa da niente, un atto un poco folle da parte di un gruppetto di ebrei religiosi particolarmente originali e tanto innamorati della terra d’Israele: affittare poche stanze nell’hotel A-Naher Al-Khaled nel centro di Hebron per celebrare assieme alle loro famiglie la Pasqua ebraica del 1968. Il governo laburista di Levi Eshkol in principio storse il naso, dai giorni seguenti la travolgente vittoria del giugno 1967 si era deciso che i «territori occupati» ai danni di Giordania, Egitto e Siria (eccetto Gerusalemme Est che era stata subito annessa) andavano preservati intatti, per poter renderli agli arabi in cambio della pace e del pieno riconoscimento di Israele.
Ma poi erano arrivati i «no» dei nemici, le trattive si prolungavano, il neonato Olp lanciava attentati assieme a slogan che ricordano oggi quelli di Hamas. E poi c’era l’euforia della vittoria e la suggestione molto romantica nell’idea di «colonizzare la terra», dopo tutto era patrimonio del primo sionismo, quello delle ondate migratorie agli inizi del Novecento. Di diverso c’era il carattere religioso dei nuovi coloni, li guidava un certo rabbino Mosge Levinger, che era nato a Gerusalemme nel 1935, ma era ben lontano dal sionismo socialista. Se questo predicava la necessità tutta laica di lavorare la terra per creare «l’ebreo nuovo» in grado di difendersi da solo, Levinger parlava invece di riportare gli ebrei alle regioni che erano state dei regni di Israele prima della distruzione del Secondo Tempio. I primi lo facevano con il fucile e l’aratro, i secondi si riferivano in termini teologici a una missione per volontà di Dio.
Ma c’era un secondo argomento proposto da Levinger che andava a toccare nel profondo le sensibilità di leader politici e militari laburisti come Golda Meir, Ytzhak Rabin, Moshe Allon e Moshe Dayan: lui voleva portare la sua gente sia a Hebron, dove nel 1929 la popolazione palestinese aveva ucciso 69 ebrei, che nella vicina Kfar Etzion, località simbolo della guerra del 1948, quando l’esercito giordano e i volontari palestinesi trucidarono 127 combattenti dell’Haganah e membri di kibbutz locali che pure stavano arrendendosi. Due massacri che nella modalità, sebbene non nei numeri, hanno richiamano ciò che è avvenuto il 7 ottobre per mano di Hamas.
Quella prima Pasqua fu però un passo irreversibile. Perché Levinger e i suoi il giorno dopo si rifiutarono di partire. Iniziò un lungo braccio di ferro con governo ed esercito: alla fine il compromesso fu di abbandonare il centro di Hebron (dove sarebbero tornati con un colpo di mano dieci anni dopo) e sistemarsi in una base militare semiabbandonata sulla collina che sovrasta la città. Era nato l’insediamento di Kiriat Arba, che da allora rimane il cuore pulsante dei coloni oltranzisti.
La crescita
La violenza dell’Intifada non li fermò: nell’87 erano 200 mila, oggi sono più del triplo
Qui Levinger pose il quartier generale dei «Gush Emunim», il blocco dei fedeli, che aveva come missione prima quella di «ebraicizzare» la terra con ogni mezzo, a qualsiasi prezzo, anche minacciando, derubando, persino uccidendo la popolazione palestinese. Quando si proclama che «Dio lo vuole» poi diventa molto difficile fare compromessi. Come ci disse ancora negli anni Ottanta Ehud Sprinzak, uno degli storici locali più attenti alla destra israeliana: «La maledizione per il nostro popolo è stata la vittoria del 1967, quando il nazionalismo sionista laico impadronendosi dei luoghi santi ebraici si è sposato con la destra religiosa xenofoba». Per molti osservatori, l’assassinio di Ytzhak Rabin nel 1995, che voleva la pace in cambio della resa di parte delle terre, è frutto di quel connubio.
Negli anni Settanta la colonizzazione proseguì in modo semiclandestino sulla falsariga del «Piano Allon», che prevedeva di annettere la valle del Giordano e la dorsale di Gerusalemme, Gush Etzion e poco altro. I coloni tendevano a mettersi nelle basi militari, che poi lentamente diventavano loro. La svolta fu però con la «mapach», la rivoluzione alle elezioni del 1977, quando il Likud di Menachem Begin andò per la prima volta al governo soppiantando l’egemonia laburista. Da allora la colonizzazione del Golan e soprattutto della Cisgiordania sono diventate priorità in cui investire il meglio.
Poco prima dell’intifada, la grande rivolta palestinese scoppiata nel dicembre 1987, i coloni erano circa 200.000. Le violenze arabe non li fermarono, tutt’altro. E neppure l’avvio del processo di pace tra Rabin e Yasser Arafat nel 1993. Anzi, sostenuti specie dalle organizzazioni ebraiche americane, i coloni continuarono a crescere proprio in quelle terre che avrebbero dovuto costituire lo Stato palestinese. Nel 2005 Ariel Sharon ritirò i 15.000 coloni di Gaza lasciando capire che la Cisgiordania era tutta loro. I governi di Netanyahu li hanno sostenuti con ogni mezzo: oggi sembrano una presenza irreversibile. Secondo il censimento Onu del marzo 2023 sono circa 700.000 (di cui 230.000 a Gerusalemme Est) e le colonie in Cisgiordania sono 279: dei residenti nella regione circa un quarto sono motivati dall’ideologia, gli altri da incentivi economici del governo.