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 2023  ottobre 30 Lunedì calendario

Le responsabilità dei palestinesi

Nella stragrande maggioranza dei talk televisivi e dei commenti della stampa, nelle dichiarazioni pubbliche di tutto lo schieramento di centro-sinistra (ma non solo) ha sempre più spazio il tema «consigli ad Israele». Dovunque, infatti, è tutto un mettere in guardia Gerusalemme contro gli eccessi della reazione al pogrom del 7 ottobre da parte del suo esercito, a non esagerare, a fare attenzione alle conseguenze.
Sempre, naturalmente, sulla base di una premessa che non ci si stanca di sottolineare: e cioè che da decenni Israele ha sbagliato tutto e che dunque proprio noi «che come si sa siamo suoi amici» abbiamo il dovere di dirglielo. Lo Stato ebraico, infatti, non avrebbe mai pensato ad altro che a resistere ma senza mai curarsi d’immaginare una qualunque soluzione per la «questione palestinese», avrebbe sempre mostrato un deplorevole vuoto di iniziativa politica, si sarebbe sempre cullato nell’illusione che bastasse tirare avanti. E oggi esso commette più o meno lo stesso errore: si mostra capace solo di reagire in maniera inconsulta, pensa solo a bombardare, sparare, invece di fare politica: e non capisce che così prepara unicamente altri mali a proprio danno. È chiaro dunque qual è il nostro dovere di amici dello Stato ebraico: «Aiutiamo Israele a uscire dal brutto vicolo cieco» come s’intitolava esemplarmente un articolo di Gad Lerner sul «Fatto Quotidiano» di qualche giorno fa.
Una cosa soprattutto mi colpisce di questa posizione comune a tanti in Occidente: il suo implicito atteggiamento profondamente paternalistico-razzista nei confronti dei palestinesi. Ma come? Israele non riesce a immaginare una soluzione politica? Israele conta solo sulla forza? E allora i palestinesi? I palestinesi invece? I palestinesi loro sì farebbero «politica»? Ma su questo mai una parola.
Consideriamo i fatti: da 80 anni, da quando sono riuniti in un «movimento nazionale», i palestinesi hanno a disposizione risorse finanziarie praticamente infinite assicurategli da un gruppo di Paesi tra i più ricchi della terra; godono dell’appoggio diplomatico evidente di Stati assai importanti e di quello, meno evidente ma non meno reale, di giganti del calibro di Russia e Cina; infine, come si vede in questi giorni, possono pure contare sulla simpatia anche di una parte non indifferente dell’opinione pubblica di questa parte del mondo.
Ebbene, come ha usato di tutto ciò il movimento palestinese in 80 anni? Si è forse preoccupato di definire una serie di obiettivi intermedi e ragionevoli alla propria azione? Ha forse mai indicato una soluzione complessiva ma minimamente plausibile e accettabile dalla controparte? Ha forse mai pensato di dar vita a un vero chiarimento al proprio interno e di liberarsi dei gruppi jihadisti antisemiti e stragisti? Di fronte alla evidentemente strabordante forza militare israeliana ha forse mai immaginato – come pure sarebbe stato ovvio – di ricorrere a forme di mobilitazione e di lotta non violenta, ad esempio a scioperi prolungati dei palestinesi stessi che quotidianamente lavorano in Israele, a scioperi della fame? Ha forse mai pensato di organizzare grandi meeting pacifici nelle capitali dell’Occidente per sostenere i propri obiettivi?
La risposta è scontata. Nulla di tutto questo è mai accaduto. In realtà da 80 anni il movimento palestinese è immerso nel nullismo politico più assoluto. Di fatto con un solo obiettivo, mai ripudiato realmente ed apertamente da nessuna delle sue componenti: cancellare Israele. In tutto questo tempo i palestinesi non hanno messo in campo alcun progetto, alcun obiettivo, non si sono dotati di alcuno strumento che possa far pensare a qualcosa che abbia minimamente a che fare con la politica. Non può fare certo piacere sottolinearlo ma è la pura verità: da sempre quel movimento sa dare notizia di sé in un solo modo: con la violenza. Spesso con la violenza più gratuita (tipo investire con un’auto dei passanti o tirare dei missili a casaccio); ovvero, come il 7 ottobre, nel modo sterminazionista che si è visto. E sempre o quasi sempre – non riuscendo a nascondere l’antisemitismo ossessivo che lo agita, la volontà di colpire non il nemico israeliano ma l’ebreo. L’ebreo e basta.
Ma lo sguardo dell’Occidente sembra quasi che si vergogni a trattenersi su questi aspetti certo non secondari della «questione palestinese». Sembra che si vergogni, ad esempio, a parlare – non sia mai detto a denunciare – della diffusissima corruzione di tutti i suoi gruppi dirigenti, della loro notoria mancanza di effettiva autonomia dal momento che ognuno di loro è di fatto alle dipendenze politico-finanziarie di questo o quello Stato islamico e delle sue strategie. Il laicissimo Occidente sembra quasi che si vergogni anche a considerare per quello che è il carattere tutto imbevuto di richiami religiosi, dai toni da guerra santa (altro che politica!), della propaganda dei suddetti gruppi dirigenti verso le stesse masse palestinesi; il fatto che quelle loro parole non indicano nulla, non portano a nulla, sono solo bellicose vuotaggini utili solo a eccitare gli animi e a nascondere l’assenza di una autentica e intelligente dedizione alla causa cui fingono di dare voce.
Ma l’Occidente non ha occhi per tutto ciò che viene e sta dietro il movimento palestinese. Per la sua effettiva realtà. Quasi che nel suo inconscio abbia posto il pensiero inespresso – e inesprimibile perché ispirato al più ovvio pregiudizio razzistico: «be’, lo sappiamo. Che cos’altro possiamo aspettarci da quella parte? Che cosa altro possono essere se non quello che sono?». E così Israele – alla quale all’opposto non ci si stanca di fare la lezione a ogni piè sospinto, di dare tutti i consigli che passano per la testa, della quale non ci si stanca di computare tutti gli errori veri o presunti – Israele diviene paradossalmente anche il paravento dietro cui si nasconde il nostro timore di dire la verità ai suoi nemici, di rivelare ciò che pensiamo davvero di essi.