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 2023  ottobre 30 Lunedì calendario

L’autodifesa del gerarca


Gli osservatori mandati da tutto il mondo, tra il 1945 e il 1946 (ma anche fino al 1949) a seguire i processi di Norimberga contro i criminali nazisti furono ospitati in uno strano edificio in stile medievale. Di questi illustri cronisti e artisti si occupa Uwe Neumahr in Il castello degli scrittori. Norimberga 1946 cronache dall’abisso (in uscita domani da Marsilio, libro di cui Paolo Valentino, su queste pagine, colse le novità e capì il valore nel momento stesso in cui venne pubblicato in Germania). Tra gli ospiti del castello, scrittori e giornalisti di grande rinomanza: Erika Mann, Erich Kästner, John Dos Passos, Ilja Ehrenburg, Elsa Triolet, Janet Flanner, Rebecca West, Marta Gellhorn, Robert Jungk, Walter Cronkite, Walter Lippmann. Anche il futuro presidente dell’Unione scrittori cinesi Xian Qian al quale la Norimberga distrutta ricordava Pechino (per la «calma che emanava»). Il castello che li ospitò, costruito nel 1916, era stato confiscato nel 1940 dalla Wehrmacht alla famiglia di produttori di matite Faber Castell. Giornalisti e scrittori alloggiavano in stanze assai stipate. La permanenza fu considerata disagevole dagli occidentali, straordinariamente lussuosa dai sovietici. «Al mattino i russi scendevano per colazione», raccontò il fotografo Eddie Worth, «si mettevano nel piatto tutte le uova che potevano, innaffiandole poi con la salsa di pomodoro Heinz e con mille altre cose che non avevano mai visto prima... e questo era solo l’antipasto!». Gli americani, notava lo scrittore tedesco Wolfgang Hildesheimer, «bevono come fossero pagati per farlo». E non è raro «che qualcuno (uomo o donna) venga mandato via perché in preda al delirium tremens». Per il resto apparivano «puritani, amichevoli e ignoranti».
In quel castello accadde di tutto. La figlia di Thomas Mann, ufficialmente associata all’esercito statunitense, ma assai critica nei confronti di ogni forma di autoassoluzione dei tedeschi, vi soggiornò in compagnia di una giornalista americana («sebbene le relazioni omosessuali fossero vietate nell’esercito», precisa Neumahr). Il futuro cancelliere tedesco Willy Brandt, all’epoca corrispondente della stampa operaia scandinava, incrociò nei corridoi Markus Wolf. Quel Wolf che, divenuto capo dei servizi segreti della Repubblica democratica tedesca, sarebbe riuscito, trent’anni dopo, ad affiancargli una spia, Günter Guillaume, e a provocarne le dimissioni. Ci fu tra i giornalisti anche un impostore, Walter Ullmann, che riuscì a farsi passare come un corrispondente cubano (nome «d’arte» Gaston Oulmán). E, «grazie all’ottima conoscenza del tedesco», a farsi nominare cronista ufficiale per Radio München. L’autore di Berlin Alexanderplatz (Rizzoli), Alfred Döblin, che pure pubblicò un pamphlet sul processo ai nazisti come se avesse assistito di persona al dibattimento, fece solo finta di aver soggiornato in quel maniero. Anzi, quasi sicuramente non mise neanche piede a Norimberga. William Lawrence Shirer (che precedentemente aveva alloggiato nel ben più lussuoso Hotel Scribe) in Diario di Berlino. 1934-1947 (Einaudi) rivelò d’aver provato un senso di «orrore» nel Faberschloss. Si indignò in particolare per la dissenteria provocata dal «cibo ripugnante». I corrispondenti inviati al processo, scrisse l’autore della famosissima Storia del Terzo Reich (Einaudi), «stipati in otto o dieci in una stanza, in un edificio fatiscente che funge da Press Camp, sono costretti a vivere in condizioni tutt’altro che igieniche, come lo Stato di New York non sarebbe mai disposto a tollerare neppure a Sing-Sing». Xiao Qian invece trovò tutto «incantevole». E il corrispondente della «Pravda» Boris Polevoj si entusiasmò per «le celebri bistecche americane alla brace spesse quattro dita, tenerissime, con i fagioli». Elsa Triolet su «Les Lettres françaises» considerò il castello «brutto», ma il parco circostante «meraviglioso». La scandalizzò piuttosto che la sera al Grand Hotel (dove le fu concesso di alloggiare in compagnia di Louis Aragon) i giudici del processo si dessero alle danze. La Triolet avvertì una sorta di intesa tra ex nazisti e occidentali. Scrittori e giornalisti meno sensibili alle lusinghe staliniane si mostrarono invece perplessi per le omissioni a proposito di crimini sovietici consumati, talvolta in combutta con i nazisti, tra il settembre del 1939 e il giugno del 1941.
Il reparto del castello destinato alle donne provocò il ribrezzo della corrispondente del «New Yorker» Janet Flanner, che ne stigmatizzò «squallore» e «inefficienza». Protestò contro le colleghe russe che «affollavano il bagno a decine» e lasciavano dietro di sé un «porcile». Ne trasse considerazioni in un certo senso politiche: «Noi democratiche non abbiamo alcuna possibilità di spuntarla con loro… noi vogliamo entrare una alla volta e stare da sole, mentre sembra che le russe adorino muoversi in gruppo anche per quanto riguarda il bagno». A colazione, Flanner scandalizzava le colleghe chiedendo a ognuna di loro con quale imputato sarebbero, «all’occorrenza, andate a letto».

Il castello fece una pessima impressione anche a Dos Passos. «Atroce… pieno di signore nude scolpite in un’orrida pietra bianca, disgustose scale», scrisse alla moglie Katy l’autore di Manhattan Transfer. «Poltrone dorate dal design atroce», proseguì, «lampadari a corona che minacciano di piombarti in testa da un momento all’altro». Ma quel disgusto per la sistemazione non lo distolse dal processo. Dove si entusiasmò per l’arringa di apertura del procuratore capo americano Robert H. Jackson a suo dire «davvero grandiosa». «Un paio di discorsi come questo», sentenziò Dos Passos, «e la povera vecchia nave di Stato che solca il mare senza timone tornerà sulla sua rotta». «Jackson», concluse, «rappresenta gli Stati Uniti nel modo in cui vorrei vederli rappresentati». Nel Diario di Norimberga — contenuto in Servizio speciale (Dalai editore) – Dos Passos addirittura si entusiasmò: «Che quattro grandi nazioni trattengano la mano della vendetta e volontariamente sottomettano i nemici prigionieri al giudizio della legge, è uno dei maggiori tributi che il potere abbia mai reso alla ragione».
E veniamo al dibattimento vero e proprio. Tra gli imputati nazisti, Hermann Göring fu il grande protagonista del processo di Norimberga. Tentò in un primo momento di «conquistare» i suoi pari grado statunitensi. Ma il generale Eisenhower non ne volle sapere. A quel punto capì che per lui la sorte era segnata e decise di presentarsi come l’inflessibile capo degli accusati. Fece ricorso, ha scritto Richard Overy in Interrogatori. Come gli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich (Mondadori), a «prepotenza e lusinghe con i suoi compagni sempre più tentennanti». E «li rimproverò con durezza per la loro slealtà o vigliaccheria». Nel suo caso, ha scritto ancora Overy, «non c’era nulla da guadagnare fingendo che la responsabilità fosse stata di qualcun altro». Per un uomo con una «visione così abnorme della propria importanza», una difesa del genere sarebbe stata improponibile: «Gli si sarebbe bloccata in gola». Fece ricorso a un’oratoria che il suo biografo, David Irving – in Göring. Il maresciallo del Reich (Mondadori) – definì «risonante». Abbelliva le risposte con battute spiritose, «provocando scrosci di risate tra il pubblico presente». Poi «faceva ammutolire gli ascoltatori con qualche noncurante ammissione di colpevolezza dall’apparente sincerità».
Così facendo – come rileva Telford Taylor in Anatomia dei processi di Norimberga. I crimini del nazismo: l’accusatore racconta (Rizzoli) – riuscì a mettere Jackson in difficoltà. Jackson, annota Taylor, «non fu in grado o non volle confutare le obiezioni di Göring». Il suo modo di procedere diede «l’impressione che l’imputato fosse più abile del pubblico ministero». In più occasioni Jackson apparì alquanto ingenuo e Göring fu messo in grado di rispondere «con qualche punta di sarcasmo». Ad esempio, quando Jackson lo interrogò sulla natura degli accorgimenti in vista dello sbarco in Normandia sottolineando il fatto che quei preparativi «erano stati tenuti segreti alle potenze straniere», Göring replicò: «Non credo di ricordare di aver mai letto in anticipo dei piani di mobilitazione degli Stati Uniti». Jackson, scrive Neumahr, «non riuscì ad avere la meglio sull’insolente sagacia di Göring e sulle sue argomentazioni cavillose».

Tant’è che in un rapporto al Foreign Office, l’incaricato americano alla redazione del protocollo, Patrick Dean, scrisse che Jackson era stato «deludente, fiacco» e che aveva «suscitato molte critiche». Dean imputava a Jackson di non aver «mai messo Göring con le spalle al muro su nessuno dei numerosi argomenti sollevati», pur essendo «chiaro che l’imputato mentiva di frequente». E, a detta di Dean, «il materiale per un buon controinterrogatorio non mancava di certo». Il giudice britannico Norman Birkett osservò con qualche ironia che Göring aveva lasciato negli astanti «un’impressione positiva». Persino il sovietico Polevoj diede atto a quel «mascalzone di prima categoria», Göring, di possedere una «personalità notevole». Ovviamente, aggiunse per prudenza, «in rapporto all’abominevole sistema disumanizzato del nazionalsocialismo».
La vera «forza trainante» delle dichiarazioni di Göring, ha scritto Albert Speer in Memorie del Terzo Reich (Mondadori), «divenne evidente allorché affermò che quand’anche i vincitori lo avessero ucciso, in capo a cinquant’anni i suoi resti sarebbero stati deposti in un sarcofago di marmo e lui sarebbe stato celebrato dal popolo tedesco come eroe nazionale e martire».
A posteriori, secondo Taylor, «appare chiaro che molti dei partecipanti al processo, per non parlare della stampa, esagerarono enormemente l’importanza del controinterrogatorio di Göring». Jackson, scrive Taylor, «pagò a caro prezzo i propri errori tattici, sia in termini di prestigio, sia di insoddisfazione personale». Inoltre, per sua «sfortuna», avevano assistito «ai suoi guai» due donne «note per l’acutezza impietosa dei giudizi»: Janet Flanner (la più dura con Jackson) e, in tempi successivi all’interrogatorio di Göring, Rebecca West.

Alla Flanner, inviata dal «New Yorker», Göring apparve come «l’ultimo importante protagonista superstite» del nazismo. Per poi aggiungere: «Il Reichsmarschall ha surclassato il Principe di Machiavelli a noioso apologeta». E ha dato «prova di essere più spregiudicato e arguto». Si era comportato come un «gladiatore» e il suo era stato un «fulgido trionfo». Aveva dimostrato al tribunale di possedere «una memoria fenomenale», un’«abilità diabolica», la sua era una «personalità autenticamente fantastica e terrificante». E Jackson? «anche fisicamente», scriveva Janet Flanner, «ha fatto una figura barbina… la giacca sbottonata gli sbatteva sui fianchi e, tenendo le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni, oscillava a gambe divaricate come un avvocato di paese». La sua «preparazione sul terreno europeo era piena di buchi in cui precipitò mentre tentava di far cadere in trappola Göring».
Le proteste americane per quel genere di resoconto furono molteplici. «L’insofferenza mostrata nei confronti della presunta ingenuità dei suoi connazionali e il riconoscimento della superiorità europea», scrive Uwe Neumahr, indussero il fondatore del «New Yorker», Harold Ross, a revocare alla Flanner l’incarico di corrispondente al processo di Norimberga e a sostituirla con un’altra grandissima giornalista: Rebecca West (che fu avvantaggiata dall’avere una relazione con il giudice americano Francis Biddle). La quale, West, pur senza aver assistito in prima persona, bollò il controinterrogatorio russo come «infantile» e definì Göring un «enorme pagliaccio» per di più «mellifluo». Pur non somigliando «ad alcun tipo riconosciuto di omosessuale», aggiunse, «era femmineo». Jackson non fu capace di interrogare Göring a dovere, era la giustificazione addotta dalla West, «perché animato dal pregiudizio di oltre Atlantico che un farabutto che aveva ricoperto alte cariche doveva essere un mascalzone solenne e non un mascalzone gioviale». Fu per così dire «spiazzato dalla sua impudenza». In ogni modo Jackson, secondo Taylor, venne «distrutto dalla marea di critiche» E «si riprese solo lentamente». Quanto a Göring, fu condannato a morte per impiccagione. Chiese di essere fucilato ma la corte gli rispose di no. A quel punto inghiottì una capsula di cianuro che si era procurata non si sa come e morì. Attorno alla mezzanotte del 15 ottobre 1946.