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 2023  ottobre 30 Lunedì calendario

Ricordando Madre Teresa di Calcutta


Eravamo, con il regista Gianni Barcelloni, nei primi Anni Novanta del secolo scorso, a Calcutta, in uno dei luoghi più oscuri: il Kalighat,e cioè il piazzale nel quale sorge il tempio dedicato alla dea Kali: il più venerato di quella città meravigliosa, perché sì, certamente oscura, la più oscura fra le metropoli indiane, ma anche quella che nel fondo del suo buio contiene la massima luce.
Volevamo fare, per «Mixer», uno speciale di cinquanta minuti dedicato alla donna indiana. Ci assistevano, nel compito non semplice, nonostante sia Barcelloni che io fossimo stati parecchie volte in India, due donne. Una, la più anziana, era Sebastiana Papa, una fotografa bravissima che molto aveva lavorato in quel Paese, dedicandosi soprattutto alla figura femminile; l’altra, più giovane, era Nunzia Coppola, una napoletana piccola, robusta, che era stata per oltre dieci anni in un villaggio del Bengala a centocinquanta chilometri da Calcutta, aveva sposato un sadhu, un «santo», molto più vecchio di lei (pare che all’epoca avesse già sui centoventi anni), sovente in meditazione su un albero, che a un certo punto le aveva consigliato di ritornare in Italia, perché ancora aveva bisogno di purificarsi nelle «fauci dell’Occidente» – pare che le avesse detto proprio così. Obbediente, Nunzia lo aveva fatto e ora, conoscendo perfettamente il bengalese, era tornata a Calcutta per lavoro. Una donna intelligente, serena. Le avevo chiesto se, profittando del viaggio, sarebbe andata a salutare il marito: con un sorriso, mi aveva risposto di no.
Il programma del nostro documentario prevedeva tra l’altro una vista a una famosa santa che viveva nell’entroterra bengalese, una visita alla città delle prostitute, un incontro a Madras con la celebre ballerina Alarmel Valli. Dalla santa eravamo stati: aveva, dopo alcune ritrosie, detto cose bellissime sull’anima femminile del mondo. Nella città delle prostitute – un milione di persone fra ragazze provenienti dagli alluvioni del Bangladesh, mariti, lenoni e figli – avevamo rischiato la pelle. Adesso eravamo su quel piazzale, regno della dea Kali, che uno non può nemmeno immaginare per l’insieme aggressivo dei suoi odori forti, della sua miseria degradante sul fiume, le musiche a tutto volume degli altoparlanti: un assedio. Infatti ero chiuso in macchina, mentre Gianni era in giro con la sua macchina da presa, assalito da torme di bambini seminudi che battevano ai finestrini per avere una mancia. Madre Teresa, in quel momento, poiché sapevamo che era inavvicinabile, non faceva parte del nostro programma. Ma, accanto al tempio induista, proprio accanto, sorgeva, e sorge tuttora, il suo Ospedale dei Morenti: quello dove le suore missionarie della carità e i volontari trasportano coloro che stanno morendo nelle strade, sui marciapiedi di Calcutta, abbandonati e soli, per un conforto dell’ultimo respiro. E questo stava proprio accadendo, mentre ero barricato in macchina: un continuo viavai di ambulanze dalle quali scendevano le suore, i volontari e i morenti: gli ultimi degli ultimi.
Così, a un tratto, non fosse altro che per sottrarmi ai ragazzini, spalancai lo sportello e dissi: ci provo. A far cosa? A entrare. Ma non era difficile entrare, per niente. Facevi un passo, due passi, il terzo e potevi trovarti, come io mi trovai, dinnanzi allo spettacolo più sconvolgente che abbia mai visto: un’ aula rettangolare lunga, coi lettini allineati alle pareti, i cadaveri agonizzanti, gli occhi neri spalancati nel vuoto, le flebo nelle braccia scheletriche – e la dolcezza, la compassione delle mani che imboccavano, che carezzavano, che fissavano con il più grande amore quegli occhi neri destinati a spegnersi per sempre. Anche io avevo gli occhi che vedevano a stento, offuscati dalle lacrime che ritenevo ingiuste – considerando me stesso. Poi uscii. E con Gianni, alle sei della mattina seguente, andammo alla messa nella Casa delle suore missionarie.
Madre Teresa era fuori. Dopo la messa, parlammo che la sua vice. Una slava, mi pare. Fummo convincenti, perché lei non dava il permesso di filmare a nessuno. Invece scrisse due parole su un foglietto e il giorno dopo, all’Ospedale, Gianni fu bravo con la sua macchina da presa.
Passò qualche anno. Un pomeriggio ero a Roma, alla Casa delle suore missionarie del Celio, accanto al loro piccolo convento, nella quale venivano accolti gli ubriachi: uno di quei pomeriggi in cui, a parte raschiare il fondo di una pentola, piegare dei panni, non succedeva granché, mentre nei letti al piano di sopra quelli che ancora erano strafatti dormivano un sonno cupo e i resuscitati, con un sorriso colpevole, scendevano le scale, quando una suora mia amica, bellissima, mi disse: «Lo sai che al convento c’è Madre Teresa?». Quindi mi precipitai. Lei, piccola, tutta ricurva, era sulla soglia, ma quando mi strinse la mano sembrava quella di un fabbro. Mi presentai, le dissi che avevo fatto un documentario nel quale c’era il suo Ospedale, le chiesi se lo aveva visto – e lei annuiva sempre (figuriamoci se lo aveva visto). Poi le chiesi di farle una intervista. Non mi disse di no, però rispose che ora non aveva tempo, aveva molte cose da fare, un’altra volta semmai, e di nuovo mi stritolò la mano.
Passò un anno, o due. Un giorno, venni a sapere che in una parrocchia della estrema periferia romana Madre Teresa avrebbe ordinato delle novizie. Era inverno, pioveva. Madre Teresa entrò in chiesa per ultima, nel corteo, e per ultima si rannicchiò sull’altare. Posso dire, con certezza, che quando ci passò vicino sentimmo una corrente viva, altro che apparizioni: una forza. Dopodiché fece un discorso sull’aborto: durissimo. Disse, sostanzialmente: «Se non li volete, dateli a me». Dopo, sotto la pioggia, la inseguimmo. Stava già in macchina: attraverso il tergicristallo e al finestrino le ricordavo che io ero quello al quale aveva promesso l’intervista; lei annuiva sorridendo e faceva cenno che «dopo», l’avremmo fatta dopo. Non era finita, comunque.

Poco prima che morisse, ero a Fiumicino all’imbarco per Parigi, proprio accanto all’imbarco del volo Delhi-Calcutta, quando dal fondo del corridoio vidi una di quelle macchinette elettriche al centro della quale lei, proprio Madre Teresa, troneggiava in mezzo alle sue consorelle. Che dovevo fare? La stessa scena. Certo, rispose, l’avrei fatta l’intervista, ma ora non aveva tempo. Lei non aveva mai tempo per le interviste. Sosteneva anche che per dare da bere a chi è assetato e amore a chi non ne ha non è necessario andare lontano: basta aprire la porta di casa. A Calcutta, comunque, andai a visitare la sua tomba. In ginocchio, ai due lati, la testa poggiata sul marmo, pregavano e piangevano disperatamente un uomo e una giovane donna. Indiani. Nella stanzetta in cui era spirata, suor Nirmala, mi disse che, morendo, la Madre aveva sofferto molto.