La Stampa, 30 ottobre 2023
Il coraggio di Alessandro Galante Garrone
Dal 1955, e per circa quaranta anni, Alessandro Galante Garrone ha collaborato intensamente con La Stampa. Ex magistrato, storico, partigiano, militante nelle file del Partito d’Azione, nei suoi interventi lasciò emergere pienamente le caratteristiche più rilevanti dell’azionismo piemontese e insieme ad amici e compagni di lotta (Arturo Carlo Jemolo, Norberto Bobbio, Massimo Mila per citare i più assidui) contribuì a fare del quotidiano una prestigiosa tribuna al quale affidare la presenza nel dibattito pubblico del filone culturale ispirato ai valori di Giustizia e Libertà.Chiusa, con lo scioglimento del PdA, nel 1947, la parentesi della loro esperienza politica, Galante Garrone e i suoi compagni si dedicarono con la stessa passione all’impegno intellettuale: Bobbio nel campo della filosofia politica, Mila in quello della musica, Galante Garrone negli studi storici, diventarono presto un insostituibile punto di riferimento per molti della generazione che si affacciò sulla scena della politica italiana nella seconda metà degli anni ’60 e che riconobbe in loro i propri maestri. Smessi i panni del magistrato, Galante Garrone si dedicò infatti allo studio del passato; i suoi lavori, ormai classici, su Buonarroti, Babeuf e la loro fallita “congiura degli uguali”, insieme a quelli dedicati agli “sconfitti” del Risorgimento italiano (Mazzini soprattutto), lasciarono emergere la sua predilezione per i “vinti” quasi avesse trasferito nel nuovo mestiere le lezioni apprese nella sua biografia politica e quegli studi fossero anche una forma di elaborazione del lutto dopo la rovinosa sconfitta subita dal PdA. Sta di fatto che proprio sul solido terreno della storiografia egli innestò i suoi interventi pubblici coniugando passione e rigore e attirando, per questo, il livore bilioso dei suoi avversari.Fu con l’avvento della Seconda repubblica che le polemiche nei suoi confronti si fecero particolarmente aggressive. Quando, nell’autunno del 2000, ci fu la proposta di conferirgli il “sigillo civico” della città di Torino, la destra (Alleanza nazionale in particolare) insorse rinfacciandogli non tanto la sua militanza partigiana quanto proprio il ruolo di “maestro” da lui assunto sulle colonne de La Stampa. E alla politica politicante si aggiunsero le invettive degli intellettuali che nella destra si riconoscevano e coniarono per lui il termine di “gramsciazionista”, colmando di disprezzo quello che consideravano una sorta di “moralismo assoluto”, una foglia di fico per coprire le bassezze «di un gruppo di intellettuali militanti che, nella redistribuzione del potere seguita al crollo del regime fascista, si è ritagliato un posto, si è assegnato funzioni e compiti specifici» (Cofrancesco). Di questi cacciatori di prebende Galante Garrone sarebbe stato uno dei leader!Si era allora nel 1995; i protagonisti della Seconda repubblica (Berlusconi, Bossi, Fini) avevano bisogno di legittimarsi cancellando per quanto possibile il patto di memoria sottoscritto dai partiti antifascisti dopo il 25 aprile 1945. Le forze politiche che a quel patto avevano aderito erano affondate nel gorgo di Tangentopoli. Gli ex comunisti si rallegravano di averla scampata e si mostravano disponibili al compromesso ( tipico della loro storia), accettando di fatto una rilettura critica del passato antifascista della nostra Repubblica. A difenderne i valori rimanevano gli ex azionisti che, proprio per questo, diventarono i bersagli principali del “revisionismo” politico e intellettuale. In una sua visione caricaturale il PdA fu raccontato così come una sorta di cavallo di Troia usato dal comunismo per introdursi nella cittadella della democrazia italiana, ignorando e negando le polemiche furibonde che avevano segnato i burrascosi rapporti tra comunisti e azionisti, non solo durante la Resistenza.Quanto fossero strumentali e interessate le accuse a Galante Garrone e all’azionismo piemontese si capisce ora benissimo grazie a un’antologia dei suoi articoli apparsi su La Stampa, in uscita domani da Einaudi, intitolata Per l’eguaglianza e la libertà. I curatori del libro, Paolo Borgna, Francesco Campobello e Massimo Vogliotti, non si sono limitati alla scelta dei brani: una esaustiva introduzione generale di Paolo Borgna contestualizza il periodo storico degli interventi e le ragioni per le quali Galante Garrone si schierò con tanta determinazione dalla parte dell’antifascismo; piccole introduzioni dei tre curatori accompagnano poi le dieci sezioni (Resistenza e Costituzione la prima, Il sonno della ragione l’ultima). Ad emergere è un percorso scandito dalle varie fasi della nostra storia repubblicana, a cominciare dalle posizioni difensive che l’antifascismo fu costretto ad assumere dall’incalzare dei venti di destra che spirarono ai tempi della guerra fredda. L’impegno contro il “clericofascismo” e per l’attuazione della Costituzione fu la trincea in cui Galante Garrone si schierò negli anni ’50 con coraggio e determinazione. Ed è proprio in questo senso che le date dei suoi articoli sono importanti: per noi storici sono altrettante fonti per cogliere lo spirito del loro tempo, con l’autore che assume le vesti di una guida che ci conduce nei meandri di una vicenda italiana che è ancora lontana dal concludersi.È così che si capiscono gli entusiasmi e i progetti che animarono Galante Garrone e i suoi compagni nella prima metà degli anni ’60, quelli del disgelo, dell’ avvento del centrosinistra e dell’irruzione delle prime manifestazioni dei movimenti giovanili. È così che possiamo comprendere le loro scelte nella “notte della repubblica” degli anni ’70, quando si impegnarono tutti a favore dello Stato di diritto e della fermezza nella lotta contro il terrorismo. È così, lo abbiamo visto, che ci appaiono chiari i loro comportamenti negli anni ’90, quando le vecchie battaglie per la difesa della Costituzione furono riprese con immutato vigore, nonostante il sopraggiungere della vecchiaia (si vedano nell’antologia i due articoli Costituzione sotto attacco del 1997 e L’attualità della Costituzione del 1998 ).Alla fine la sua lezione resta questa: avere il coraggio di essere in minoranza, di saper coniugare la secessione dalla politica con l’impegno culturale, di abbracciare con convinzione le ragioni della coerenza e della dignità morale, anzitutto come individui.