il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2023
Due protagonisti raccontano il fallimento delle privatizzazioni e della classe dirigente italiana
“Era facile diventare ricchi al loro tempo con il basso costo del lavoro e non pagando le tasse. Quando hanno sentito arrivare la crisi hanno portato i capitali all’estero e si sono fermati. Ma facciano il piacere. Erano dei ragionieri, altro che industriali”. Chi sarà mai il bolscevico che liquida in tal modo le dinastie del capitalismo italiano? Silvio Berlusconi, intervistato da Mario Pirani nel 1977. Difficile dargli torto: manodopera a buon mercato, accondiscendenza fiscale, protezione dalla concorrenza, soldi all’estero e rendite finanziarie sulle ceneri della grande industria, sono anche la sintesi della controstoria della classe dirigente italiana firmata da due protagonisti che l’hanno vissuta in prima persona ai massimi livelli: il banchiere Pietro Modiano e l’economista Marco Onado, già commissario Consob e membro di numerosi cda. La coppia usa ovviamente parole più felpate, ma risulta implacabile nella documentazione. C’è di che sobbalzare sulla sedia leggendo Illusioni perdute (il Mulino). Mi viene da chiamarli, per l’onestà intellettuale con cui stroncano a posteriori un progetto in cui avevano riposto grandi aspettative, “i due moschettieri delle privatizzazioni, trent’anni dopo”.
È il 1993. L’Italia mette sul mercato un patrimonio colossale: buona parte della fascia alta del sistema produttivo e la quasi totalità del sistema bancario. Si attivano i vecchi protagonisti della scena industriale (Fiat, Pirelli, Mediobanca) più i nuovi arrivati nel “salotto buono” (Colaninno, Benetton). Offrono “nocciolini” per controllare aziende in cui non investiranno. Usano le privatizzazioni “in modo opportunistico per conseguire facili profitti di breve periodo o per spostarsi dall’industria ai servizi, cioè ai settori protetti dalla concorrenza internazionale”. Non a caso – scrivono Modiano e Onado – le uniche privatizzazioni industriali di successo “sono quelle in cui lo Stato ha mantenuto poteri di indirizzo”.
Comandare senza correre rischi e dare la colpa agli altri dei propri fallimenti, è il tratto che accomuna i protagonisti del declino italiano. Il libro racconta l’occasione sprecata dalla Fiat dopo aver sgominato la resistenza operaia e sindacale nel 1980. Mano libera in fabbrica, profitti alle stelle. Eppure, nel 1988, Romiti lancia una campagna per la “qualità totale” che suona come un’autodenuncia. Scriverà il suo successore Giorgio Garuzzo: “Nessuna azienda al mondo si dedicò mai con lo stesso impegno di Fiat a convincere l’opinione pubblica che i propri prodotti facevano schifo”. Vero. Ma, si sa, all’epoca la parola d’ordine era diversificare, imboccando “la via finanziaria allo sviluppo” che Modiano e Onado chiamano: la tentazione di Mefistofele. Altre recensioni di questo libro sono rimaste vaghe sui comportamenti fallimentari, spesso di solo tornaconto personale, che spiegano l’esito infausto delle privatizzazioni. Ma va notato Ferruccio De Bortoli che si unisce agli autori nella confutazione di alcune falsità di cui i giornali sono stati pieni: non è vero che il lavoro in Italia costasse troppo; non è vero che più flessibilità migliorasse la produttività; non è vero che la Borsa sia rimasta asfittica per colpa dei risparmiatori retrogradi. Meglio tardi che mai.