il Giornale, 29 ottobre 2023
Mitford, tanto genio e tanta sregolatezza
R ispetto alle altre cinque stravaganti sorelle minori, tutte bionde e con gli occhi azzurri, Nancy Mitford (1904-1973), della quale ricorre il cinquantenario della morte, era, almeno dal punto di vista fisico, un po’ diversa. Alta di statura come i suoi genitori e il fratello Tom, di bell’aspetto, volto regolare, sguardo vivace ed espressione sempre vagamente ammiccante e ironica, talora imbronciata, Nancy era una bella donna bruna, d’un bruno intenso. Anche dal punto di vista caratteriale e delle scelte politiche, però, lei, che sarebbe diventata una grande scrittrice e una brava biografa, non assomigliava troppo alle sorelle. Aveva sentimenti vagamente laburisti, non subì la suggestione delle ideologie totalitarie come Diana e Unity, affascinate da Hitler e dal fascismo o come Jessica, ammaliata dal comunismo e neppure fu tentata dalla mondanità aristocratica di Deborah o dallo spirito contadino e campagnolo di Pamela. Al più, negli ultimi anni, probabilmente influenzata dal suo ultimo amante Gaston Palewski, che ne era uno stretto collaboratore, si avvicinò a Charles De Gaulle e alle sue idee. Una volta, rivolgendosi a un’amica, suo padre, David Mitford, barone di Redensdale, rampollo di un’illustre e antica famiglia dell’aristocrazia terriera tradizionalmente conservatrice e monarchica (la cosiddetta gentry) se ne uscì con questa battuta: «Non capisco proprio. Sono normale, mia moglie è normale, tutte le nostre figlie sono folli». In realtà, più che folli, le sorelle Mitford erano eccentriche e portavano avanti, in un momento storico particolare qual era quello del primo Novecento, un senso di ribellione o di rivalsa nei confronti dell’autorità paterna che è stato ben descritto dal grande storico Arnold J. Toynbee nella sua conversazione con il figlio Philip, pur egli scrittore e intimo delle sorelle Mitford, nel bel volume L’urto tra i padri e i figli (Nuova Accademia, 1964), che spiega anche le ragioni del fascino delle idee comuniste nell’Inghilterra del tempo. In un certo senso, Nancy fu la meno «folle» delle celebri sorelle, anche se tale non apparve al padre che non amava né i libri né la cultura in genere ma soltanto la campagna e la caccia e che, tradizionalista e conservatore nell’intimo, rifuggiva il più possibile dalla vita pubblica a costo di apparire bizzarro. Non è un caso che Nancy lo prese a modello per uno dei personaggi, messi in berlina, dei suoi primi racconti e romanzi: il che, per inciso, non dispiacque affatto al padre che ne fu invece lusingato. Curiosa e intelligente, vivace ed estroversa, profondamente empatica, dotata di grande senso dell’ironia Nancy ebbe un’infanzia privilegiata e, per così dire, protetta vivendo nella bella tenuta di famiglia ed essendo educata da governanti dedite a lei. Di ciò, peraltro, ella dovette certamente soffrire sentendosi oppressa e isolata dal mondo reale, almeno fino a quando, nel novembre 1922, compiuti i diciotto anni poté fare il suo debutto ufficiale in società e, dopo la tradizionale presentazione a Corte, poté partecipare alla spumeggiante vita mondana della Londra degli anni Venti tra feste e balli che si protraevano sino all’alba. In quegli ambienti ella conobbe e frequentò personaggi destinati a diventare famosi nel mondo delle lettere, da Harold Acton, il grande storico dei Borbone d’Italia che di lei scrisse una appassionata biografia-ricordo, fino a Evelyn Waugh, giornalista e romanziere che le fu legato da una amicizia profonda durata tutta la vita. Per l’austero genitore, che incarnava lo stereotipo del gentiluomo di campagna e del flemmatico milord inglese, anche Nancy che pure, a differenza delle sorelle, non era portata agli eccessi e alle scelte politiche dirompenti appariva, dunque, un po’ «folle»: non meraviglia che egli fosse, quanto meno, stupito dal fatto che lei fumasse, si dipingesse le labbra, indossasse pantaloni, si tagliasse i capelli corti alla maschietta, suonasse l’ukulele, organizzasse feste e stringesse flirt con personaggi, a suo parere, pittoreschi del dandismo dell’epoca, a cominciare dallo studente oxfordiano Hamish St. Clair Erskine, figlio del secondo conte di Rosslyn, che fu, malgrado la sua omosessualità, il suo primo fidanzato ufficiale. In realtà la vita sentimentale di Nancy non fu fortunata: dopo la rottura del fidanzamento con Hamish, sposò Peter Rodd, figlio di un illustre diplomatico e politico divenuto barone Rennell, ma il matrimonio si rivelò tutt’altro che felice per l’infedeltà e l’inettitudine del marito, tanto che i due finirono per condurre vite separate. Forse, il suo vero grande amore fu il colonnello Palewski, che ella conobbe durante gli anni della seconda guerra mondiale e che seguì in Francia: ma si trattò con molta probabilità di un amore a senso unico. Diverso fu il suo destino letterario. Nancy cominciò a scrivere all’inizio degli anni Trenta racconti caratterizzati da una sottile e sofisticata vena umoristica alla Woodehouse, che, con l’andar del tempo, si trasformò in sottile ironia. Alcuni titoli, recentemente proposti in italiano da Adelphi, sono celebri, da Rincorrendo l’amore a L’amore in un clima freddo fino a Non dirlo ad Alfred: si tratta di scritti dal taglio brillante e talora irriverente, in qualche caso sottilmente autobiografici e ispirati al suo mondo familiare, che offrono uno spaccato sorprendentemente efficace e suggestivo dell’aristocrazia rurale inglese con le sue fisime, le sue debolezze, le sue incertezze politiche. Per capire come una parte, non del tutto trascurabile, della gentry conservatrice degli anni Venti e Trenta abbia potuto in qualche misura soggiacere all’appeal delle ideologie e dei sistemi autoritari e totalitari, salvo poi staccarsene, i romanzi della Mitford sono, a mio parere, fondamentali: non perché trattino politica ma perché descrivono, sia pure implicitamente, terreno e condizioni favorevoli al sorgere e diffondersi di utopie politiche. Ancora oggi, a distanza di tanti decenni, quei romanzi sono tuttora godibili per freschezza di scrittura e capacità di introspezione. E la loro lettura andrebbe integrata con quella di un suo saggio, The English Aristocracy, contenuto in un volume collettaneo da lei stessa curato nel 1956 e intitolato Noblesse Oblige. An inquiry into the identifiable characteristics of the english aristocracy nel quale si trova anche un bel testo di Evelyn Waugh: un volume, questo, purtroppo mai tradotto in Italia. Accanto alla Mitford narratrice, che fu sostenuta e incoraggiata da Waugh, c’è però, un’altra Mitford che merita di essere ricordata ed è la Mitford degli ultimi anni appassionata di storia. Quando nel 1954 uscì la sua prima biografia, Madame de Pompadour (Bompiani), uno dei maggiori storici inglesi, A. J. P. Taylor, fece notare che la Mitford aveva inventato un «mondo fuori dal tempo» chiamato Versailles e aggiunse che «nessuno storico» sarebbe stato capace di «scrivere un romanzo all’altezza dell’opera storica di Mrs Mitford». Che fosse un complimento o meno, è certo che il libro piacque allo studioso. E ben a ragione. Questo e altri lavori storici della Mitford per esempio Federico il Grande (Club degli Editori) e Voltaire innamorato (Bompiani) rientrano, infatti, in un genere nuovo di letteratura storiografica creato proprio allora da Lytton Strachey: la biografia fondata sull’aneddotica e sulla ricostruzione psicologica e caratteriale del personaggio.