il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2023
Intervista a Maurizio Tedesco
Interno giorno. Mattina. Primi anni 60. “Ero in cucina con mia madre e mia sorella. Papà ovviamente non c’era, né mai c’è stato. Mamma apre la dispensa e trova solo una scatoletta di carne e delle sfoglie di pasta. Si ferma. Passano alcuni secondi. Recupera un sorriso, ci guarda e punta sulla finzione: ‘Finalmente, oggi lasagne!’ Io di nascosto inizio a piangere: eravamo veramente poveri. Allora decido di lasciare la scuola per aiutare la famiglia: a sedici anni la giusta strada era il cinema”.
L’ufficio di Maurizio Tedesco racconta la sua strada dentro “la passione più grande della mia vita”, culminata con il ruolo di produttore: le foto con Abatantuono sul set di Nel continente Nero, di Corso Salani per Il muro di gomma (“quanti guai per quel film”); un primo piano di Claudio Caligari (“Persona eccezionale, ostracizzata per via di Amore tossico”); il manifesto de Il sorpasso (“Il più bello tra gli italiani, a Dino Risi ho chiesto di tutto”). E ancora cimeli, altre immagini, locandine, Rita Hayworth che guarda la stanza dall’ombra del bianco e nero. Ancora in piedi, ancor prima di sedersi, si affaccia alla mensola delle gioie, prende in mano due cornici: in una è con Maradona (“Dovevo produrre un film con lui, ma non è stato possibile”), nell’altra è accanto a Falcao (“Era divino…”).
Come ha iniziato?
Mamma curava l’amministrazione di Alfredo Bini (produttore); ci parla, e lui mi propone di affiancare i montatori per Comizi d’amore di Pasolini “però non posso pagarti”; (sorride) all’inizio neanche capivo di cosa mi occupavo, avevo solo 16 anni.
Bel debutto.
Però non ho avvertito subito il sacro fuoco, perché era un mondo severo.
Che intende?
Il montatore era chiuso in una stanza insieme a Pasolini e all’assistente, ed era tutto manuale, tutto sacro: la pellicola era un tesoro.
Pasolini incuteva timore?
Persona fantastica e tolgo immediatamente ogni congettura: non ci ha mai provato né con me né con l’altro apprendista, non eravamo per lui, amava i ragazzi alla Ninetto Davoli; (pausa) Pier Paolo era un uomo di grande rispetto e generoso: non guadagnavamo nulla, allora ci invitava a pranzo e da lui ascoltavamo storie meravigliose.
Scopriva alti mondi.
Sì e piano piano sono entrato a far parte di una grande famiglia, ho iniziato a fare mie quelle regole severe, dove il “lei” era la norma, dove la cravatta era d’ordinanza; (sorride) ricordo i sopralluoghi in Israele per girare Il Vangelo secondo Matteo , con Pasolini cupo.
Perché?
I kibbutz non andavano bene, avevano alterato il paesaggio, fino a quando gli propongono Matera. Si parte. E lì Pasolini finisce in lacrime: “Finalmente!”; (abbassa quasi la voce) negli anni ci ho pensato, ma in quel film Pasolini si ispira a Piero della Francesca e soprattutto si immedesima in Gesù, tanto che tutti i discepoli sono intellettuali del suo mondo e in quel film mette in scena il suo martirio.
Lei era lì.
Sì, e i primi piani li abbiamo girati fuori da Cinecittà a due passi dalla fermata dell’autobus; in quei momenti ho capito in quale realtà ero finito: tutto era possibile.
Il suo obiettivo qual era?
Volevo diventare come Franco Arcalli (montatore dei film di Bertolucci).
Perché lui?
Oltre al montaggio partecipava alle sceneggiature, volevo entrare nel film, conoscere ogni angolo.
Suo padre era attore.
Anche doppiatore e cantante lirico.
Le ha trasmesso l’amore per il cinema…
Amava solo se stesso; purtroppo quando è morto non ho versato una lacrima.
Torniamo a Cinecittà: nei primi anni chi ha incontrato?
Soprattutto le maestranze, reale condensato di umanità e cinismo, la battuta vinceva sempre, così come la necessità di smitizzare tutto con il sarcasmo; era normale andare dal regista novello, pacca sulla spalla e poi: “Oh, che fortuna che hai: due film in uno. Il primo e l’ultimo…”. Il novello di solito balbettava: “Perché dite questo?” (pausa) davanti a Pasolini restavano in silenzio.
Maestri di vita.
Era un mestiere con dei canoni: finito un film non si buttava via nulla, pure i pezzi di legno venivano accantonati, magari potevano servire di nuovo.
Il salto dopo Pasolini?
(Sorride) Veramente dopo Pasolini temevo solo di poter andare indietro; comunque andai da Zeffirelli per Romeo e Giulietta sia per la versione italiana sia per quella inglese.
Zeffirelli.
Uomo comprensivo, intelligente, di gran gusto, malato di Fiorentina ma circondato da una serie di “zie” pronte alla battutaccia; grazie a Romeo e Giulietta ci invitò a Londra la Regina Elisabetta e all’improvviso finimmo in un mondo fatato composto di smoking, inchini, protocolli e feste. Mi sono ritrovato a ballare tra il principe Carlo e Olivia Hussey.
Le girava la testa.
Con un amico siamo rimasti sei mesi a Londra: per mantenermi ho trovato un lavoro prima da coffee boy e poi in un ristorante di pollo con una sacra raccomandazione del titolare: “Può mangiare carne due volte la settimana”. Io annuii. Per me era già un lusso: da povero vero, a casa non la vedevo mai.
Londra di quegli anni doveva essere magnifica.
L’alto e il basso si mischiavano con naturalezza: staccavo dal lavoro e il programma della sera era imprevedibile, poteva accadere qualunque situazione, come andare a cena con Peter O’Toole; (pausa) uomo noioso, ha parlato e bevuto tutta la sera.
Nel suo curriculum c’è Federico Fellini.
Ci spiazzava: quando girava un primo piano, si divertiva a cambiare le battute con il doppiaggio; (sorride) la sua era una vita terrificante.
Cioè?
Si alzava alle quattro del mattino e chiamava chiunque; mentre stava al telefono, da seduto, c’era un allenatore che lo invitava ad alzare la gamba: “A Federi’, prima la sinistra e poi la destra”; l’appuntamento era in piazza del Popolo, a Roma. Da lì si partiva per Cinecittà. A pranzo al ristorante. E dopo andava dalla “Pacioccona”.
Da chi?
Una donna molto accogliente, ma dal vivo non l’ho mai incontrata; la verità è una: con Giulietta si rompeva le palle, soprattutto dopo aver perso il bambino, quindi si impegnava tutto il giorno.
Dopo la signora Pacioccona?
Verso le sette e mezza la salutava e allora tutti fuori; se in città c’era il Circo Orfei, la destinazione era obbligatoria: dopo lo spettacolo si piazzava in una roulotte e tutti i circensi si presentavano da lui con una sorta di offerta gastronomica, con un piatto tipico del loro paese. Ringraziava, ma dopo buttava tutto.
Finito il circo?
Continuava la serata: magari andavamo al teatro La Campana a vedere attori come Oreste Lionello e Pippo Franco. Arrivava a cinque minuti dalla fine dello spettacolo, si piazzava dietro il palco, coperto dalla tenda. Al momento dei saluti usciva come una furia, applaudiva e urlava: “Bravi!!!!”. Loro ovviamente felici, li aveva salutati Fellini…
Bel ritmo di vita.
Dopo un po’ mi sono arreso. Ho mollato. Avevo un figlio e non gli stavo più dietro.
Soluzione?
Con un amico ho aperto una società di produzione: realizzavamo video per la RCA, in particolare per Francesco De Gregori, Renato Zero e Gianni Morandi. Soprattutto inizio a lavorare con Gianni Minà; (sorride) il viaggio negli Stati Uniti con lui è stato pazzesco.
Ha sperimentato la celebre agenda-Minà?
Andiamo a Miami, appuntamento in una palestra di un quartiere pessimo, perché dovevamo incontrare Muhammad Alì. Troviamo migliaia di persone. A fatica entriamo e all’interno era un inferno: tutti pigiati. Non so come, ma Gianni inizia a urlare “Muhammad, Muhammad!” e Alì si accorge di noi. Un suo cenno. Si apre un varco e ci mettiamo a bordo ring mentre si esibisce contro un campione di karate.
Povero karateka.
Lo prendeva per il culo: Alì gli piazzava la mano sulla fronte e lo costringeva a colpire l’aria; (ride) alla fine lo seguiamo dentro lo spogliatoio e in quel momento ho capito ancora una volta la grandezza di Minà.
Spieghi…
Alì era enorme, bellissimo, con un sorriso raro. Si toglie i guantoni, si toglie i pantaloncini, si tira giù le mutande e va sotto la doccia. Qualunque altro giornalista avrebbe scattato una foto, mentre Gianni ci ha guardato e intimato di stare fermi; Gianni non si approfittava delle situazioni, non tradiva e per questo aveva quell’agendina; (pausa) con Gianni siamo anche andati da Ted Kennedy, non proprio simpaticissimo.
Torniamo ai video: Renato Zero.
L’ho conosciuto ai tempi del Piper (anni Sessanta); ragazzo di una simpatia non comune, ma veniva sistematicamente corcato de botte da chi lo insultava per il suo abbigliamento; (sorride) la mia ragazza del tempo era amica di Mita Medici e Mita era fidanzata con Califano. Lo andiamo a trovare e scopro un uomo tranquillo, simpatico, intelligente come pochi altri. E soprattutto parlava in maniera normale: lo “stile” strascicato è nato in galera perché si è sentito una sorta di protettore dei carcerati; (pausa) questo sarebbe un bel film.
Il “sarebbe un bel film” è la sua chiave di valutazione della vita?
Capita; Age e Scarpelli non avevano la macchina, stavano in mezzo alle persone; Age scriveva tutte le battute che orecchiava, ma quella era la stagione della gente che fischiettava.
Tradotto?
C’era il tempo di fare una passeggiata, mani unite dietro la schiena, e di fischiettare.
Da produttore, insieme a Marco Risi, ha realizzato Il muro di gomma…
Il povero Andrea Purgatori (giornalista e sceneggiatore del film) ne ha passate tante e l’ho capito subito quando uno dei generali (protagonista della tragedia di Ustica) ci ha citato per 1 miliardo di lire; e poi non riuscivamo a chiudere il film.
Che vuol dire?
Non arrivavamo a raggiungere il budget definitivo, per questo coinvolgemmo Vittorio Cecchi Gori che al tempo era in società con Silvio Berlusconi; il giorno prima dell’inizio delle riprese ci telefona Vittorio: “Possiamo aspettare un po’?” “Perché?” “Mi stanno rompendo le palle” “No, siamo pronti”. “Siete sicuri?”. “Sì”. Vittorio è stato un produttore bravissimo, aveva fiuto e ci ha lasciati liberi.
Il film non è stato accolto benissimo.
Quando l’abbiamo presentato a Venezia non si è presentato alcun ministro, Berlusconi ci ha inviato giusto un telegramma.
Ha prodotto L’odore della notte di Claudio Caligari, uno dei registi più ostracizzati.
Il cinema l’ha trattato come un reietto.
Per quale motivo?
Un po’ per il suo primo film, Amore tossico: molti erano convinti lo fosse pure lui e poi aveva un carattere particolare, ruvido, intransigente, dove la bestemmia era un intercalare, eppure molto colto e simpatico. Di quel film sono orgoglioso.
Il film del quale va più orgoglioso…
L’ultimo Capodanno, unico nel suo genere, poi Il bagno turco e Il muro di gomma. Aggiungo Il branco: vent’anni prima abbiamo parlato di violenza sessuale.
Lei chi è?
Non ci ho mai pensato; (pausa) uno che ha fatto ciò che desiderava.