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 2023  ottobre 29 Domenica calendario

Intervista a Antonio Manzini

«Il mio maestro ideale sta in una bottega rinascimentale. Un luogo dove gli allievi imparano gradualmente, osservandolo e lavorando fianco a fianco a lui. Il modo migliore di passare il testimone è vivere, non dare lezioni». È ironico come il suo alter ego Rocco Schiavone, Antonio Manzini, ma nelle sue parole si sente la nostalgia per un mondo più a misura d’uomo, dove ci sia spazio per crescere e trovare il proprio talento. Non è un caso se ha scelto di vivere lontano dalla modernità, nella campagna laziale. «Il senso profondo della vita non si è mai insegnato – dice – si è sempre rubato».Lei, Manzini, da chi è andato a bottega?«Il primo maestro è stato mio padre. Si chiamava Francesco Manzini, era pittore e mi ha insegnato a guardare. Non accade spesso che la figura del padre e quella del maestro coincidano, sono stato fortunato. Passavamo molto tempo insieme, mi portava nei musei, nelle chiese, mi faceva capire la luce, il colore, il ritmo, la forma. Da lui ho imparato una visione profonda, perché quello che vedi non è sempre quello che è. Ricordo che insisteva sulla differenza di colore dei cieli, come è cambiato l’azzurro tra il ’500 e il ’700...».La sua scrittura così attenta ai dettagli viene da lì?«Penso proprio di sì. Mio padre ha allenato il mio sguardo facendomi di continuo domande: “Cosa ti colpisce? Cosa pensi che stesse provando in questo momento il pittore? Che sentimento esprime questa figura?” e io mi sono esercitato a osservare. L’occhio educato, attento, è importante. Poi naturalmente ci sono i gusti personali».Dopo un rapporto così speciale con suo padre non sarà stato facile trovare altri maestri all’altezza...«E invece ho incontrato Andrea Camilleri all’Accademia di Arte Drammatica. L’ho detto che sono fortunato... Un grandissimo maestro. La sua forza era non mettersi mai sul piedestallo, non prendersi troppo sul serio, ma spingerti a guardare dentro te stesso, a metterti in crisi. Solo così si impara. Non prendersi troppo sul serio è stata la prima lezione imparata davvero all’Accademia».La seconda?«L’importanza delle storie. Camilleri ci raccomandava: “Raccontate una storia, non fate un personaggio”. L’ho sempre fatto, anche prima di scrivere libri, quando recitavo, e nei disegni – non so disegnare ma disegno. Infatti amo molto i fumetti e ho provato spesso a crearne».Altri maestri?«Tanti, anche se non ho li ho conosciuti personalmente, penso a registi come Ettore Scola o Mario Monicelli, quante volte ho visto e rivisto L’armata Brancaleone. Il denominatore comune è sempre quello di non prendersi troppo sul serio. Leggo e rileggo anche i grandi scrittori, maestri inarrivabili come Shakespeare, Maupassant o Zola. Ogni volta scopro un significato nascosto, ulteriore».Quindi il maestro deve essere un po’ criptico? Far faticare il discepolo?«Dipende: deve parlare facile ma non renderti le cose troppo facili. Naturalmente un maestro elementare deve farsi capire dai bambini, e se ti occupi di scienza devi essere il più chiaro possibile. Ma su argomenti come pittura e letteratura ognuno, alla fine, deve trovare il suo significato. Penso al bellissimo film Amadeus di Milos Forman, dove Salieri cerca di capire il perché della magia della musica di Mozart. Non c’è un perché, il genio e inspiegabile».È un non-insegnamento spietato.«Nell’arte non c’è maestro che tenga, se tu una cosa la sai fare la sai fare, altrimenti non c’è niente da fare: è l’arte che sceglie te non tu che scegli l’arte. Ricorda Wedekind? Il tenore dice Io ero un muratore, è l’arte che mi ha scelto. L’unica cosa che si può fare è dare alle persone strumenti. Naturalmente nel campo della scienza è diverso, le conoscenze scientifiche sono oggettivamente vere. Resta il fatto che il modo migliore di passare il testimone è con la vita».Lei passa il testimone a qualcuno?«Io non mi pongo mai come maestro, sono grato a chi mi legge ma pensare di avere qualcosa da trasmettere mi sembra un po’ una “hubris”. Mi basta poter raccontare storie».E i cattivi maestri?«Ce ne sono tanti e di varie razze. Ci sono quelli che fanno dell’arte un tornaconto, una questione di furbizia e di denaro. E poi quelli che stanno sempre sul piedistallo pomposi e vuoti... quante ovvietà frutto del copia e incolla esprimono certi cosiddetti maitre à penser. Ma i maestri più pericolosi e infidi sono quelli di grande fascino ed esperienza, che seducono e rovinano gli allievi creando delle sette, “o con me o contro di me”, escludendo chi non è come loro».Ne ha incontrati tanti, di cattivi maestri?«All’Accademia ne ho visti parecchi, ahimè. Due volte ho rischiato di essere espulso perché non volevo starli a sentire. Non accetto la verità rivelata».Un animo ribelle come il suo Rocco Schiavone?«Certo, il suo caratteraccio e la sua insofferenza a certe regole sono un po’ anche i miei. Lo vedrete adesso, nella prossima avventura in arrivo il 31 ottobre, la ventesima di Schiavone, stavolta lontano da Aosta: Riusciranno i nostri eroi a trovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America? Il titolo richiama volutamente il film di Ettore Scola con Sordi e Manfredi, tanto per tornare ai maestri di cui sopra».Questa è una bella notizia per i lettori...«Lo so, sono assediato da richieste: quando torna Rocco? Mi fa un po’ paura questa dipendenza da un personaggio, non ho ancora capito da cosa nasca. Camilleri anche in questo mi fa da guida. Aveva scritto cose bellissime senza Montalbano, ma, diceva, “questo qui ogni volta rispunta fuori. Non riesco a togliermelo di torno"».La dipendenza è una brutta bestia?«Il problema è che poi la moda passa. Ricordo quando da bambino mi appassionavo alle cose e poi da un giorno all’altro mi stancavo. Tipo, adoravo le merendine Buondì, poi di colpo non le ho più mangiate. Ecco non vorrei che Schiavone diventasse come i Buondì».