La Stampa, 29 ottobre 2023
Fellini, l’uomo dei sogni
Ebbe nella morte la dolcezza di chiudere la luce il giorno dopo il cinquantesimo anniversario del matrimonio con Giulietta Masina. S’era sposato il 30 ottobre 1943. Sarà perché forse Federico Fellini pensava che la morte fosse l’unica cosa vera della vita. O perché gli piaceva la cabala. Anita Ekberg in una velenosa intervista disse che lo sapevano tutti che lui credeva a streghe e fattucchiere. Ma non è proprio così. Non è che ci credesse. Semplicemente, adorava le cose che loro gli raccontavano. Perché erano come dei sogni. E quello che ci ha lasciato Fellini è la quinta immaginaria di un teatro dove ha dipinto con riprovata ossessione le sue incessanti polluzioni oniriche, riempite di personaggi in cerca di identità, quando non erano proprio così grotteschi da apparire finti e inverosimili, come quegli oggetti di scena sottratti alla miseria effimera del ciclo vitale. In fondo, che cosa sono i sogni se non una grande bugia? Fellini lo ripeteva spesso di sé, forse anche solo per liberarsi dal peso insopportabile della verità: «Sono un gran bugiardo». O un fregnacciaro: «Cosa intendano gli americani con felliniano posso solo immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il termine giusto». Ma Alberto Sordi lo spiegava ancora meglio quando diceva che «tutto quello che vi racconteranno di lui se non ve lo dico io non è vero. E sapete perché? Perché probabilmente gliel’ha raccontato Fellini. E Fellini è un grande bugiardo, l’uomo più bugiardo del mondo. Però, ahò, Federico c’ha una capoccia così».Sordi lo conosceva bene, perché erano diventati amici negli anni giovanili dei sogni e della miseria, quando Fellini era uno sconosciuto caricaturista che scriveva gag per Aldo Fabrizi. A Rimini, da liceale, d’estate si metteva il vestito più bello e andava in spiaggia a fare i ritratti a pastello dei bagnanti. Ed era venuto a Roma a fare il vignettista. Era così magro che Tonino Guerra diceva che sembrava Gandhi: «Un fachiro dagli occhi profondi», con quella chioma arruffata che gli pesava sul capo. «Eravamo due poveracci», ha ricordato Sordi. Andavano a mangiare in una latteria di via Frattina e facevano così pena che la cuoca s’era intenerita e gli nascondeva due bistecche e due uova sotto gli spaghetti che avevano ordinato. Facevano lunghe passeggiate la sera, piene di sogni e Federico gli diceva: «Albé, io un giorno diventerò un grande regista, forse il più grande del mondo». Solo che Sordi lo doveva sostenere, perché c’aveva fame e «gli era rimasta soltanto una testa così, piena di capelli su un corpo che si deperiva di giorno in giorno. E io non potevo fare niente per lui perché anch’io ero un poveraccio senza una lira». Ma poi arrivò il suo angelo salvatore. Conobbe una ragazzina che faceva la radio e si chiamava Giulietta. Era l’opposto dei suoi sogni femminili. Quasi minuta, dolce, carezzevole, così lontana dall’immaginario erotico di Gradisca, dalla sensualità prepotente e provinciale delle donne felliniane. Ma lui se ne innamorò come ci si innamora senza saperlo della vita che ci aspetta. «Lui scrisse per lei una rubrichetta e si fidanzarono. Lei da buona emiliana cominciò a cucinare agnolotti, lasagne, tortellini e cominciò a ingrassare Federico».Fellini il Grande è nato lì, quando è cominciata la sua seconda vita. È nato con Giulietta. Cinquant’anni e un giorno, ha detto la cabala. Ma le fattucchiere le cercava solo come cercava le mignotte, quando assieme a Marcello Mastroianni saliva sulla macchina guidata da Isabella Biagini e andavano di nascosto nella pineta di Ostia, lei davanti e loro due dietro. Isabella passava i soldi, 20, 30, 50mila, per convincerle a farsi intervistare. Chiedevano storie per i loro film. Incubi, sogni, il mondo di Fellini, con la cartapesta che reinventa la natura e gli uomini e le donne che galleggiano sul respiro della vita. Poi alla fine Federico le chiedeva, ma voi godete? «Dottò, che vuole? Ce ne so’ alcuni che puzzano come cadaveri». Era, nel suo perimetro onirico, un arcitaliano, che amava il rumore, un certo disordine definito e persino gli ossimori, la dolcezza come l’autorità senza sconti. Odiava Luchino Visconti. Ha raccontato Giancarlo Dotto che una volta si incrociarono in macchina a piazza del Popolo e finsero di non vedersi. Ma Fellini disse all’amico che guidava: «Chiudi il finestrino. Visconti mi sputa dentro». E invece aveva grande affetto per Giulio Andreotti. Gli scrive un mucchio di lettere, «caro Giulio, mi fa tanto piacere chiamarla così», gli fa lunghe telefonate di solidarietà durante i suoi processi. Votava repubblicano o socialista, una sola volta votò Dc, nel ’76. Mai il Pci.Al suo genio possiamo perdonare tutto, anche le sue incongruenze. Ha amato Sandra Milo e altre donne che animavano la sua fantasia erotica, però nessuna è entrata dentro alla sua vita come Giulietta, mamma sorella e compagna. In fondo, diceva Tonino Guerra, non c’è niente da capire. Durante le riprese di Amarcord vide uno che veniva alla sera per raccattare gli avanzi dei cestini buttati dagli attori. Si chiamava Vincenzo Caldarella, era un senzatetto di piazza del Popolo. Lui lo fece diventare l’emiro del Grand Hotel. Solo Fellini poteva fare una cosa così. Ma è vero che non c’è niente da capire. E quando è morto un giorno dopo i 50 anni con Giulietta, non è stato altro che una volontà del cielo. Perché è ben strana la vita. È come i sogni. Nessuno li può spiegare. —