la Repubblica, 29 ottobre 2023
Il giacobino che amava la Costituzione
Se l’intelligenza è una «parente stretta del giacobinismo», come affermava Stendhal, si capisce meglio quanto manchi all’Italia una figura quale Alessandro Galante Garrone, il mite giacobino scomparso esattamente vent’anni fa, disilluso eppure non arreso, ironicamente annoverandosi fra «i viventi abusivi» secondo l’espressione di un suo “maggiore”, Gaetano Salvemini.
Magistrato e storico, Galante Garrone dispiegò il suo magistero di “giustizia e libertà” anche attraverso gli scritti giornalistici per La Stampa, il quotidiano dell’altra sua città (era nato a Vercelli nel 1909, nipote di due Medaglie d’oro della Grande guerra, e a Vercelli l’Università del Piemonte orientale nel 2010 gli ha dedicato una cattedra). Per l’eguaglianza e la libertà è un’antologia di pagine, tra editoriali ed elzeviri, ora per i tipi di Einaudi, a cura di Paolo Borgna, Francesco Campobello, Massimo Vogliotti.
Non a caso è Borgna a firmare l’introduzione. Già avvocato e magistrato, biografo di Alessandro Galante Garrone (Un Paese migliore, per Laterza, dopo il libro intervista Il mite giacobino ), nonché presidente di Istoreto, l’Istituto storico della Resistenza di Torino, il primo a sorgere in Italia, nel 1947.
“Mito e storia della Resistenza” è l’articolo che inaugura il libro. La stagione cruciale nella vita dell’autore, onorata di una lettura che «non annebbia la visione della realtà», risalente al 1957. Sfarinando la definizione di “secondo Risorgimento” per i venti mesi dellaguerra civile: «Fondamentale il divario fra Risorgimento e Resistenza. Questa fu, a differenza di quello, un moto di popolo, una guerra di popolo». Quindi invitando a studiare a fondo il fascismo, dal cui crollo sorgerà il movimento di liberazione. Gobettianamente, «la nostra generazione sarà, nel suo aspetto più originale, una generazione di storici».
Eguaglianza e libertà, ossia la dimensione sociale della libertà. Galante Garrone vi approda evolvendo da Croce, la religione della libertà, «che pareva sovrastare immota, come in un iperuranio», a Omodeo, la libertà liberatrice, «una libertà che doveva convertirsi in dedizione di sé agli altri, in libertà per gli altri – non solo individui, ma ceti, classi, nazioni – dunque in giustizia».
Galante Garrone ravvisa la fonte di eguaglianza e libertà nella Costituzione, meno propenso, a differenza di Jemolo, a evidenziarne le foglie secche, in sintonia soprattutto con Calamandrei, di cui scriverà la biografia, a denunciarne l’incompiutezza. Anche se a urtarlo, più delle remore alla sua attuazione («Se è molto, non è tutto»),era «una troppo scarsa fede nella Costituzione, nella sua efficacia rinnovatrice, nel suo valore di categorico impegno per la trasformazione della società». Di articolo in articolo, Galante Garrone riflette il “problemismo” salveminiano, l’attenzione alle questioni che bussano. Via via, di battaglia civile in battaglia civile, testimoniando come l’altro capofila della Torino civile, Norberto Bobbio, sopravvissutogli pochi mesi, che i nodi si sciolgono, non si tagliano, opponendo la ragione alla spada.
Gli esercizi di “educazione civica” di Galante Garrone sono un vasto cahier. Di emergenza in emergenza. P2, tangentopoli, mafia, terrorismo. Le affronterà non lesinando la passione – indelebile, di ascendenza risorgimentale – per “il nostro Stato”, come si intitolava la rubrica di Carlo Casalegno, assassinato dai brigatisti nel 1977.
Tra i caduti che Galante Garrone commemorerà, non poche le toghe, da Galli ad Alessandrini, da Livatino a Falcone e Borsellino. Il potere giudiziario sarà centrale nelle sue riflessioni. Delineerà il magistrato ideale: libero di manifestare il suo pensiero, ma, nelle forme, dimostrando «un self control particolare», rifuggendo la tentazione di trasformarsi in legislatore, disdegnando le etichette (destra, sinistra, cattolico, etc.), unica discrezionalità l’interpretazione delle leggi. Nel solco di Domenico Peretti Griva, il suocero, fra le schiene diritte che tali rimasero durante il ventennio, primo presidente della corte d’Appello di Torino nel dopoguerra. Eguaglianza e libertà, due valori della Rivoluzione francese, raccontata da Gal ante Garrone in un limpido ciclo di lezioni. Un’epoca di cui ritrarrà un protagonista, Gilbert Romme, giacobino “montagnardo”, che si suicidò per non tradire gli ideali. Di una fede laica che ha le sue origini nella «fede giansenistica della giovinezza. Pochi rivoluzionari ebbero tanta serietà morale, tanto genuino fervore religioso».
Il giansenismo del mite giacobino permeerà, e non poco, il Partito d’azione. L’intransigenza, l’ostinato rigore, l’imperativo categorico così inviso alla gesuitica classe politica italiana, a cominciare dai comunisti, che in quella piccola forza intenderanno (e patiranno) una severa coscienza. Riferendosi a Togliatti, e al suo soprannome, Galante Garrone osservò per esempio che il segretario del Pci durante l’Assemblea costituente, quando insistette per accogliere nell’articolo 7 i Patti Lateranensi, non si dimostrò come il “migliore” allievo di Francesco Ruffini, suo anticoncordatario professore nell’Università di Torino. Altra l’Italia laica.