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 2023  ottobre 29 Domenica calendario

Tavan, poesia di un eretico


Dieci anni fa, il 7 novembre, se ne andava Federico Tavan. Se l’è svignata sorprendendo tutti, appena dopo la data della morte di Pasolini, il 2 novembre, che chiamava «Il Mestre» il Maestro, e il suo 64° compleanno, il 5 novembre. Tavan è stato sicuramente e visceralmente il più pasoliniano dei poeti italiani, e come Pasolini, poeta anche in lingua friulana, nella variante friulana di Andreis. Quella lingua «debole» il friulano, come la chiamava Pierluigi Cappello, che «non avendo la possibilità numerica di tutti i vocaboli della lingua italiana, diventa lingua attaccata alle cose, tanto che si salda addosso alle cose».
Andreis, un paesino del Friuli che sulla carta geografica è poco meno di un puntino. Anzi non compare proprio. Federico Tavan cresce segnato da superstizioni, deliri e difficoltà psichiche. I suoi demoni lo invadono. Nei fogliacci del diario racconta le aspettative della famiglia. E che aspettative, dopo che Giacomina reputata la «strega» del paese (da quelle parti nella stretta gola della Valcellina nel 1643 furono contate 32 indemoniate) assale verbalmente in chiesa Cosetta, incinta di Federico, mentre prega la Madonna: «Vedrai vedrai cosa nascerà… un mostro». Cosetta sviene e viene portata a casa a braccia. Federico scalcia. Si ribalta e si rivolta nel ventre della madre. Insomma, Federico ancora prima di nascere si era già beccato un malocchio. Ma poi nasce ugualmente «…altrimenti io sarei un aborto di poeta». In un dialogo immaginario scrive: «Giacomina, mia finta madre. Ti amo nonostante tu mi abbia maledetto. Ucciso tutte le galline nel pollaio e offerto caramelle avvelenate... hai solo fatto il tuo dovere di strega e hai scelto me. Alleluja». E aggiunge: «Poteva capitare anche a te/ di nascere in un pentolone/ tra rospi e intrugli/ di streghe senza processo/ e il dolore grande di una madre./ Io mi sono trovato a passare/ da quelle parti».
A scuola viene castigato spesso perché «...ero lo zimbello, il complessato, il diverso... e continuavo a grattarmi». Poi in collegio al Don Bosco di Pordenone che si trasforma per lui in un vero e proprio Lager «...il collegio di quel Santo di Don Bosco, roba da ricchi nel ’62... e i preti 37 aguzzini... Un esercito. Scodinzolante in nero».
Il padre si vergognava di quel figlio. Fa carte false per obbligarlo al servizio di leva. Viene esonerato dopo alcuni mesi perché, si dice, abbia baciato in bocca il suo capitano. Inizia a lavorare ma solo a momenti, tra ricoveri e vita normale. Breve soggiorno milanese; lavora in un magazzino di tessuti all’ingrosso. Spedisce le cose dalla parte sbagliata del mondo. Alla catena di montaggio della Rex sembra un sabotatore agguerrito. «Ma ero solo distratto…». Lo allontanano.
Federico Tavan è stato un fenomeno autentico, un talento poetico, per necessità di vita. Tutto contraddizione e tutto contrario a tutto, adattandosi a questo suo essere esistenziale in modo straordinario e doloroso, scrive Amedeo Giacomini.
Tavan è un personaggio omologo alla propria poesia che vive e interpreta scodellando all’esterno un’umanità rabbiosa, gridando, ridendo da anarchico, appunto, che ci vuole seppellire sotto il ghigno di una satira apparentemente autolesionistica, mostrandoci una realtà amara che è quella del nostro e del suo Paese. Egli è dunque essenzialmente poeta di contenuti, mentre le forme sono collegate alla pulsione del grido, del riso e magari del pianto sincero. Per non essere divorato dalla società trasformava tutto il suo incontenibile impeto in buffoneria.
Per il destino di Federico Tavan non ci sono risposte, come non ci sono state all’inizio del ’900 per un poeta come Dino Campana che nel 1914 stampò a sue spese i Canti Orfici, prima di essere recluso, quattro anni dopo, nel manicomio di Castel Pulci fino alla sua morte nel 1932. Ma anche per Alda Merini: «Manicomio è parola assai più grande/ delle oscure voragini del sogno», che ha trascorso ricoverata anni traumatici che le hanno sconvolto la vita. Salvata probabilmente in virtù dell’esposizione mediatica degli ultimi anni.
Da quando Federico si era perduto dentro sé stesso dopo una brutta avventura televisiva romana, quietato solo dai farmaci e ritornato bambino, pur avvertendoci in anticipo – «il poeta è morto… non scrivo più… ma di cosa dovrei scrivere oggi che ci hanno tolto anche le fate… di telefonini forse?» —, la malattia ha avuto la meglio sull’uomo e sul poeta.
In un momento sereno della sua vita, qualche anno prima, in occasione di quei suoi due viaggi incantati a Parigi, di cui fui volontariamente accompagnatore e vittima sacrificale, scrisse: «Eppure, se ci penso bene, senza ipocrisie e senza infingimenti, sto passando uno dei più bei momenti della mia vita, sono molto sereno, forse mi manca solo un grammo, per essere felice, ma un grammo è tanto». Hölderlin dice che il nostro destino è la condizione in cui «gli umani sofferenti ciecamente precipitano da un’ora all’altra, scagliati come l’acqua di roccia in roccia»; ma su queste rocce a volte vi sono attimi in cui l’uomo può prendere fiato.
Tavan era corpo, debordante presenza fisica, abbracci infiniti e voce urlante. L’emozione dell’incontro poi lo trasformava in una grondaia umana. Fuori dalla sua casa nella piazzetta di Andreis, il suo sgangheratissimo Bateau Ivre, tenuto assieme con il fil di ferro, al posto del suo nome appende una targa in legno con scritto «Qui dorme lui». Per salvarsi da un suicidio a portata di mano gli resta solo la possibilità d’amore «...me stesso da amare» e una poesia d’amore che prende a pugni il nulla parlando «de monades/e de me». Ne esce una poesia tempestosa, congiunta a una condizione di profonda perturbazione e a un’estrema necessità di felicità semplici: «Se fos normal/ e sunarés / dute’ li cjampanes...E po’ via/ pa’ chî prâtz/a deventâ/ flours/ âs/e/ la meil/». (Se fossi normale/ suonerei tutte le campane. E poi via per i prati a diventare fiori, api e miele).
Tavan è vissuto in balia della vita fin dall’infanzia —scrive Anna De Simone – e la vicenda esistenziale dell’uomo va ripercorsa in maniera non invasiva ma con molto rispetto e con delicatezza. Tavan ha saputo sottrarre al naufragio di sé e dei suoi giorni difficili, finché ha potuto, un suo villaggio interiore ricco di incanti, lungo una linea che, muovendo dalla miracolosa fioritura delle Poesie a Casarsa di Pasolini, si è dipanata luminosa assieme ad alcuni decisivi innovatori non solo della lirica in friulano, ma più in generale della poesia del Novecento fino ai nostri giorni. Basterebbero i nomi e i libri di Novella Cantarutti, Amedeo Giacomini, Pierluigi Cappello, Ida Vallerugo.
Mario Turello ne abbozza un secco e acuto ritratto: «Ha appreso l’arte della bisnonna dell’ava-banda/ vecja contrabandiera/ inteligjenta, che nascondeva esibendo: no jodéu ch’ài al cos/ plen de tabac, e otteneva col riso di non essere presa sul serio. A pari Federico, il berretto a sonagli indosso, contrabbanda, tra understatement e meditata stravaganza, la poesia, non insana e non minore, ma autentica e intelligente. Non poeta eccessivo, Tavan, ma eccentrico; al margine, ma nel limite, e più divergente che diverso». In quella parentesi dei suoi anni quasi felici, la poesia di Federico zampilla «gratuita» come dono com’è per tutta la vera poesia, nelle osterie, nelle piazze, in incontri pubblici e manifestazioni culturali. Ed è per questo che risulta sovversiva e disturba la terrificante stupidità e il potere.
Federico, questo Menocchio moderno (il mugnaio friulano processato e giustiziato per eresia dall’Inquisizione a fine ’500, ndr), dice di lui la poetessa Ida Vallerugo, «…che gira per le strade facendo a pugni con il nulla e con il suo grido lacerante e nuovo… che ha in sé grazia, verità… e rogo. Poterlo stringere. Dire alla morte. È nostro. Federico! Nostra preziosa eresia».