Corriere della Sera, 29 ottobre 2023
Intervista a Pupi Avati
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Pupi Avati, «L’orto americano», il suo nuovo romanzo che diventerà un film, si apre con una scena agghiacciante: il protagonista scava giustappunto nel suo orto e trova una vagina chiusa in un barattolo. È una storia onirica, tra il giallo e l’horror. Del resto uno tra i suoi primi film di successo, «La casa dalle finestre che ridono», era un horror. E poi Zeder, L’arcano incantatore, Il signor diavolo… Perché?
«Perché sono cresciuto in un mondo magico. Durante la guerra sfollammo in campagna, a Sasso Marconi: i bombardamenti su Bologna parevano fuochi d’artificio».
Isgrò, l’artista, mi ha detto la stessa cosa, descrivendo lo sbarco in Sicilia.
«L’infanzia è il tempo del brivido. Non solo la guerra; la favola contadina, il fascino della religione preconciliare. Nei miei horror, e anche nel romanzo, c’è sempre un prete. Rigorosamente in tonaca nera. Oggi i preti sembrano assistenti sociali».
Non le piace Papa Francesco?
«Posso essere sincero? Non tanto. Se il giorno dell’attacco di Putin fosse andato sul confine ucraino forse avrebbe fermato la guerra, come San Leone Magno con Attila».
Ma dai, cosa poteva fare il Papa?
«Se credi in Dio, devi credere nell’onnipotenza di cui lo Spirito Santo ti ha perfuso. I sacerdoti non parlano più della vita e della morte, del peccato e dell’oltretomba. Un tempo erano loro ad accompagnarti di là, ed erano i depositari dei segreti inconfessabili del morente. Quasi tutti avrebbero ancora bisogno di preti così: il proselitismo laico se lo possono permettere solo i ricchi».
Cosa ricorda della guerra?
«Avevamo il comando nazista dall’altra parte della parete di casa. Per evitare che ci requisissero la Topolino, la seppellimmo nell’orto. Una ragazza che andava con i tedeschi, la Cocchina, fece la spia. I soldati tirarono su la Topolino di peso».
Sasso Marconi è a otto chilometri da Marzabotto.
«Non vivemmo il massacro, ma ricordo le notti nei rifugi a Bologna. Le sirene, la fuga; i rosari a raffica, il palazzo che trema tutto; il biancore dell’aria piena di fumo, le urla delle donne che riconoscono i morti».
Che ricordo ha del fascismo?
«Atroce. La sopraffazione, la paura. Tutti temevano tutti. E la guerra è la peggiore esperienza che possa vivere un essere umano».
L’Italia del dopoguerra com’era?
«Impresentabile e felice. A casa ho la foto di classe delle medie: siamo in 35, uno più brutto dell’altro. Sembriamo la famiglia Addams. Non si capisce neppure che stagione fosse: questo aveva cappotto e cappello, quello era in canottiera… Eppure non ce n’è uno che non sorrida. Anche perché per molti era la prima foto che facevano in vita loro. Ognuno coltivava il proprio sogno individuale, e attendeva cose straordinarie».
Lei cosa votava?
«Dc. Poi mi sono innamorato di Berlusconi. Era come Fellini: quando stavi con lui, ti faceva sentire la persona più importante del mondo. Fin quando è stato Berlusconi, mi è sempre piaciuto moltissimo».
Da quando non era più Berlusconi?
«Da un po’ di anni. Mi torna in mente una serata sulla terrazza di Laura Betti. Erano tutti comunisti. Quando dissi che ero democristiano, incrociai lo sguardo di Moravia, carico di disprezzo. Capii che non mi avrebbero mai più invitato».
Ha pagato un prezzo per non essere di sinistra?
«Ma no! È quello che vogliono sempre farmi dire; ma non è vero. Ho fatto tutti i film che volevo: il cassetto è vuoto. Sono riuscito pure a fare il film su Dante, e ora a portarlo in Giappone».
Nel film lei fa dire a Boccaccio: «Dante sapeva il vero nome di tutte le stelle…».
«Quella frase è mia, sa? Certo, non sono considerato dalle persone che piacciono. L’amichetteria, come la chiama Fulvio Abbate».
Com’è la Meloni?
«L’ho votata perché so che non vuole essere ricordata solo come la prima donna premier, ma a qualunque costo vorrà riuscire nell’impresa fallita da tanti predecessori. Anche se mi ero illuso che privilegiasse la competenza all’appartenenza. Ho proposto un comitato di artisti, disinteressati alla poltrona, per fare di RaiTre la rete culturale, senza pubblicità. Non mi hanno preso sul serio».
E la Schlein?
«Non mi riconosco in lei, ma vedo nei suoi confronti un accanimento eccessivo».
Qual è il suo primo ricordo?
«I litigi tra mamma e papà. Erano molto diversi. Lui era un uomo bello, spiritoso, colto, che aveva sposato la sua dattilografa. La famiglia di papà era borghese e monarchica, quella di mamma contadina e socialista».
È vero che suo padre era di origine calabrese?
«Ci raccontava di discendere da un aristocratico, Pio Avati. Non era vero. Ho speso due milioni di lire per ricostruire l’albero genealogico, e in effetti ho trovato un Pio Avati: accattone e omicida».
Lei rimase orfano a dodici anni.
«Mia madre era ossessionata dalla poesia di Pascoli, La cavallina storna: quando la ascoltava, piangeva. Noi gliela recitavamo per dispetto, e lei fuggiva tappandosi le orecchie. Mio padre morì in macchina a Santarcangelo di Romagna, nella stessa curva, nello stesso giorno – 10 agosto —, alla stessa ora in cui era stato assassinato il padre di Pascoli. Nell’incidente morì anche mia nonna materna. Ci stavano raggiungendo a Rimini per festeggiare il ferragosto».
Come fece sua madre a mantenere la famiglia?
«Fu un miracolo. E la premessa affinché i miracoli possano accadere è crederci. Vendevo surgelati…».
Quali?
«Bastoncini Findus, sogliola limanda, piselli primavera. Vidi 8 e mezzo di Fellini e decisi di fare cinema. Lo annunciai alla mamma, che aveva sempre sognato di fare l’attrice, ma non me l’aveva mai detto. Lei andò in cartoleria, comprò un grande quaderno e ci scrisse sopra: I film di Pupi. Poi disse: ci serve una sede a Roma. Così affittò una pensione, piena di studenti americani. Mamma rispondeva al telefono, se chiamava un produttore rispondeva: “Pupi è appena uscito”. Ma io stavo a Bologna a vendere surgelati».
Come furono gli esordi?
«Un disastro. Eravamo in cinque: io, un antennista, un fruttivendolo, un amministratore di condomini, un custode del museo del cinema di Bologna. Dilapidammo oltre duecento milioni del nostro mecenate, che si faceva chiamare Mister X».
Chi era?
«Carmine Domenico Rizzo, costruttore edile, primo contribuente dell’Emilia Romagna. Anche se era calabrese, per davvero. Era un tempo in cui per racimolare i soldi si chiedeva agli esercenti dei cinema di sottoscrivere cambiali, poi si scontavano alla Bnl, e con i proventi del film si rimborsavano. Gli esercenti erano i tuoi soci. Oggi il titolare di una multisala non sa neppure quali film proietta. Le multisala sono la rovina del cinema».
Ci sono le serie tv.
«Difficilmente diventano cinema. Sono per lo più speculazioni commerciali di dilatazione del racconto».
Mamma era ossessionata dalla Cavallina storna, papà morì nella stessa curva e nello stesso giorno del padre di Pascoli In terrazza da Laura Betti dissi che ero democristiano, Moravia mi guardò con disprezzo. Non mi hanno invitato mai più
Lei suonava il jazz.
«Smisi quando nel gruppo entrò Lucio Dalla: era troppo più bravo di me».
È vero che per invidia voleva buttarlo giù dalla Sagrada Familia?
«Ma no! Me le sono inventato. Metà della mia vita è frutto di invenzione».
Ai lettori del Corriere però non si possono dire bugie… Il successo arrivò già nel 1975: «La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone».
«Un altro miracolo. Propongo il film a Paolo Villaggio, che accetta. Ma il produttore, Giovanni Bertolucci, il cugino di Bernardo, non si fida: “Villaggio dice sempre di sì a tutti e non mantiene mai!”».
Era vero?
«Paolo era cattivo e inaffidabile, ma di un’intelligenza superiore. Fatto sta che il produttore vuole una prova: la firma di Villaggio su ogni pagina del copione. Comincio l’inseguimento a Paolo attraverso cabaret, teatri, circoli del tennis».
E il miracolo?
«Mi telefona Ugo Tognazzi. Era l’attore del momento, aveva già fatto Amici miei, era il numero uno al botteghino. Ma, con umiltà incredibile, mi chiede: “Lei pensa che io sarei adatto a questo film?”. Poi mi invita a cena a casa sua, a Torvaianica».
E lei?
«Mi precipito, con mia moglie. Tognazzi mi accoglie e subito mi racconta che la sera prima ha fatto cilecca con una donna. Quella sua intimità nell’insuccesso fece sì che dopo un minuto eravamo già amici. Lo siamo rimasti per tutta la vita. Alla fine quel film lo fecero sia Tognazzi sia Villaggio».
Tra i suoi primi sceneggiatori ci fu Maurizio Costanzo.
«Talento straordinario. Allora lavorava alla radio. Si inventò Bontà loro ma era terrorizzato dal video, per farsi coraggio prendeva due optalidon e un caffè. Quando uscirono le liste della P2 provò a negare e si nascose in un residence di via Po. Andai a trovarlo e lo convinsi a chiamare Pansa e a raccontare la verità. Ripartì da una tv privata in Sardegna».
È vero che lei fu invece tra gli sceneggiatori di «Salò o le 120 giornate di Sodoma», l’ultimo film di Pasolini?
«Sì, ma non gli piacque. Così andai a trovarlo a casa, in via Eufrate 9, all’Eur. Mi aprì, gli chiesi se fosse vero che la sceneggiatura non gli era piaciuta, e lui rispose impietoso: sì. Gli raccontai che anch’io, come suo padre, ero di Bologna. Mi fece entrare, fu carinissimo. Cominciammo a riscrivere il film, insieme con Citti, che doveva essere il regista. Noi discutevamo di violenze e coprofagia, e ogni tanto si affacciava Susanna, la mamma di Pierpaolo, per chiederci se le melanzane le volevamo fritte o con il pomodoro. Capii che “Salò” per lui sarebbe stato il film definitivo, con cui si affacciava sul baratro dell’orrore. E andava oltre. Salò era per Pasolini quello che fu il Requiem per Mozart».
Com’era come persona?
«Io conoscevo il Pasolini diurno: solare, allegro, leggero. Parlavamo di calcio, io milanista, lui del Bologna. Ma il Pasolini notturno non lo conoscevo. Mi invitò alla prima de “Il fiore delle mille e una notte” e mi fece sedere accanto alla madre. Susanna sussurrò “speriamo che sia bello”, poi mi prese la mano e me la tenne stretta per tutto il film, alla fine ci abbracciammo piangendo: “È stato bravo Pierpaolo?”, “sì, è stato bravo”. Questo affidarmi la madre, come la Madonna a San Giovanni, fu la cosa più bella che Pasolini potesse farmi».
Lei ha lavorato anche con Christian De Sica.
«Era un bambino, più che recitare cantava. Con il fratello Manuel componeva la coppia comica più straordinaria che abbia visto; incredibile che non abbiano mai lavorato insieme. Giovanna Ralli mi portò da Carlo Ponti, il produttore, che mi offrì 60 milioni per fare due film, uno con Christian e l’altro con Luca De Filippo. Figli d’arte. Rifiutai».
È vero che per Regalo di Natale voleva Lino Banfi come protagonista?
«È vero. Lo portai a cena, divorò un vassoio di ostriche, e mi disse di no: voleva fare Il commissario Logatto con Dino Risi. Cominciai a sfogliare un album di foto, vidi Abatantuono, e pensai: è lui. Diego aveva lasciato il cinema, gestiva un night a Rimini, il Lady Godiva. Gli ho cambiato la vita. È bello dare felicità. Quando ho telefonato a Edwige Fenech a Lisbona per proporle un film si è messa a piangere per la gioia: erano sette anni che nessuno le proponeva un film».
Fellini com’era?
«Parlava solo di soldi, di tutti quelli che l’avevano imbrogliato. Aveva un fratello, Riccardo, che voleva fare pure lui il regista, ma Federico gli impose di cambiare cognome; Riccardo rifiutò. Quando morì, Fellini soffrì molto, si sentiva in colpa. Per mia fortuna con mio fratello Antonio ho un rapporto bellissimo, gli devo molto».
Lei è sposato da sempre con la stessa donna, Amelia, detta Nicola come il nonno.
«La vidi per la prima volta con il suo fidanzato di allora, un conte. La conquistai per sfinimento. Con le belle donne devi fare così; e lei era bellissima. In una coppia c’è sempre uno che ama di più; e quello ero e sono io. Sentivo che quella ragazza era la tessera mancante del puzzle della mia vita, e non avrei mai potuto trovarne un’altra. Una sera uscimmo, era il 18 settembre, mancavano cinque minuti a mezzanotte, le dissi: tra poco compio gli anni, sono solo al mondo, me lo dai un bacio? Me lo diede».
Un bellissimo regalo di compleanno.
«In realtà compio gli anni il 3 novembre. Ora con mia moglie non ci abbracciamo più, dormiamo in camere separate. Il tempo porta il pudore. Ma non siamo soli. A volte la guardo e la trovo identica a sessant’anni fa. La cosa mi emoziona molto».
Come immagina l’aldilà?
«Non so immaginare la mia assenza, un mondo senza di me. Penso al dolore che proveranno i miei figli, Tommaso, Alvise, ma in particolare Maria Antonia: tra padre e figlia c’è sempre una corsia preferenziale».
Lei che rapporto aveva con sua madre?
«Non ho mai accettato la sua morte. Facevo le prove, passavo sotto la sua finestra quando sapevo che non era in casa – mia mamma si affacciava sempre alla finestra quando passavo —, ma non è servito a nulla. Ancora adesso mi sorprendo a pensare: devo chiedere consiglio alla mamma».
Il protagonista del romanzo porta sempre con sé le foto dei suoi morti. A lei è mai arrivato un segnale dall’aldilà?
«Mai. Però con i miei morti parlo. Sul computer ho una lista di 250 nomi di persone care che mi hanno lasciato: la sera li leggo tutti, li evoco, e li sento venire per aiutarmi a superare le mie angosce. Ora ho aggiunto Burt Young e Sergio Staino. Ho suggerito lo stesso metodo a Francesca Fagnani – sono amico suo e di Enrico Mentana —, e la sera dopo mi ha chiamato: “Lo sai Pupi che funziona?”. Noi siamo debitori verso coloro che ci hanno preceduto. Invece abbiamo cancellato il passato, la memoria. Un tempo in questi giorni si andava al cimitero e si lasciavano i fiori a tutti. Oggi chi lo fa ancora?».
In Zeder lei immagina un cimitero dove i corpi rinascono. Un anno dopo Stephen King pubblicò un romanzo, “Pet Sematary”, basato sulla stessa idea.
«Fu certo un caso. A me l’intuizione venne dopo che a mia suocera parve di aver rivisto il suo cocker, che era morto».
Quando si diventa vecchi?
«Quando via via ti dicono che se ne sono andate le ragazze della tua vita. La vecchiaia è dura. Il corpo recalcitra e non ti obbedisce più. Ti assale il rimorso per quello che non hai fatto, per i libri che non hai letto, per le persone che non hai incontrato».
Lei però ha fede.
«La mia fede si fonda su una frase di Jung trovata nella sua casa di Basilea: “Vocatus atque non vocatus Deus aderit”; che lo invochi o no, Dio è qui. Ne ho fatto delle ceramiche da mettere nelle case di campagna dei miei amici laici. La mia Costituzione ha quasi duemila anni ed è infinitamente meglio di quella del 1948. Articolo uno: gli ultimi saranno i primi».
Ma dall’altra parte cosa c’è?
«Spero ancora in un ultimo miracolo, confido che possa accadere qualcosa per cui io capisca il senso della mia vita. Di sicuro ci sono più cose tra cielo e terra di quelle che vediamo, e anche di quelle che immaginiamo».
Dopo questa intervista diranno che, se lei non è bugiardo, è matto.
«Le persone creative, un po’ folli, ci sono indispensabili. Sono coloro che dilatano la ragione, per le quali nulla è impossibile e tutto si può realizzare. Ringrazio mia madre per averci educato all’impensabile».