Corriere della Sera, 29 ottobre 2023
Ascesa e caduta di Insegno
Il presentatore preferito da Giorgia Meloni giace laggiù, lì sotto, all’1,8% di share.
Pino, e adesso?
Pino, lo chiudete o no questo Mercante in Fiera?
Pino, come la cambiamo l’egggemonia culturale del Paese con ascolti così striminziti? (sembra di sentire la voce severa di Giovanbattista Fazzolari, il sottosegretario turbato da questa Rai che perde milioni di ascoltatori ogni giorno, in molti programmi).
Domande pruriginose, preambolo inutile. Seguiamo invece un testimone oculare, una fonte, che fa strada nei corridoi grigiastri del centro di produzione «Fabrizio Frizzi», l’ex leggendaria Dear, mura gonfie di umidità e cavi elettrici, luci al neon sempre accese, dove Pino Insegno registra il suo programma.
Quelli che capiscono di televisione, te lo spiegano così: non solo è un format vecchiotto (la prima volta andò in onda nel 2006, su Italia 1), soprattutto è un game show. Tecnicamente: viaggia su binari precisi. Domanda, risposta, domanda. Il conduttore ha poco spazio per aggiungere qualcosa. Dovrebbe essere un lavoro pulito. Ma Pino esce con la camicia sudata. L’aria piacionesca in camerino diventa una maschera triste. Ogni puntata, nello struggente tentativo di inchiodare qualcuno davanti allo schermo, prova a metterci qualcosa di suo, rovista in tutto il mestiere che ha, e ne ha: la gente, però, lo vede, lo ascolta in un miscuglio di efferata euforia e sarcasmo da avanspettacolo, e cambia canale. Maurizio Costanzo diceva che Pino, nel suo mitico show al Teatro Parioli, fosse quello capace di sfornare le battute migliori. Solo che lì faceva l’ospite.
Le stagioni di grazia, per ciascuno di noi, vanno e vengono. Ma nessuno sa riconoscerle subito. Pino – ci parleremo tra qualche capoverso – s’era invece convinto fosse tornato il suo turno (nella Rai controllata dal Pd – quando era al culmine del successo, quando con Reazione a catena faceva anche il 30% – fu allontanato di botto: «Insegno? Insegno è fascio»).
Flash back necessari.
Ritornare a piazza del Popolo, 22 settembre 2022, un giovedì: il centrodestra chiude la campagna elettorale delle politiche e quando tocca a Giorgia Meloni salire sul palco, a presentarla c’è lui, Pino. Sono amici da vent’anni. Esagerando, lui le va incontro tutto vestito di nero. E, leggermente enfatico, l’accoglie dicendo: «Verrà il giorno della sconfitta, ma non è questo il giorno...», citazione tratta dal Signore degli Anelli (nel film ha doppiato, lui che è uno strepitoso doppiatore, Aragorn, il personaggio di Viggo Mortensen: Pino rende omaggio alla futura premier sapendo che è cresciuta nella storica sezione di Colle Oppio, una catacomba romana che Fabio Rampelli – all’epoca segretario – aveva trasformato in laboratorio politico, tra inedite pulsioni ambientaliste e solida militanza, cameratismo moderno, e una misteriosa fascinazione per Tolkien, appunto).
Il giorno dopo il trionfo elettorale, cominciano a scrivere: Pino, l’artista di regime. Pino, il raccomandato. È un’ombra scura con il pizzetto che cala su Viale Mazzini. Frullatore. «Gli danno Domenica In. No, lui ha chiesto di condurre Sanremo» (alla fine incasserà due programmi: questo tragico Mercante in Fiera e L’Eredità, che partirà a gennaio – vertici Rai già riuniti in preghiera: perché lì, in quella fascia oraria, traino del Tg1, non sono ammessi fallimenti).
Lui, comunque, lascia fare. L’unico commento è: «Tanto quando non ce l’hanno con me perché sono di destra, ce l’hanno con me perché sono laziale». Poi entra a Palazzo Chigi. Una roba mai vista. Entra, esce. Poi ritorna, riesce. La seconda volta, i cronisti lo fermano. E Pino, un filo arrogantello: «Sono andato a prendere un caffè. Perché, è vietato?». No. Però Fiorello il caffè lo prende al bar.
Ma è così che va: Pino si sente improvvisamente qualcosa che non è mai stato nella sua lunghissima carriera in cui ha magistralmente dato la voce agli altri (da Mel Gibson a Matt Dillon, a Will Smith) per poi essere anche frontman della Premiata Ditta a Buona Domenica e conduttore dello Zecchino D’Oro, attore di cinema come «Boro Scatenato» nelle Finte Bionde dei Vanzina e interprete a teatro, con musical al Sistina e commedie leggere non pretenziose, quella nebulosa – come ha scritto Andrea Minuz sul Foglio – che sta due dita sopra al Bagaglino e un po’ sotto il teatro di prosa, con titoli tipo Gallina vecchia fa buon Broadway.
La carriera
«Ho 64 anni e nessuno dice che ne ho 40
di carriera. Sento
l’affetto della gente»
Adesso, al cellulare, via Whatsapp, sembra di parlare con il Mel Gibson di Braveheart: voce solenne, tono sincero.
«Ho 64 anni: e nessuno dice che ne ho 40 di carriera sulle spalle e che sono commendatore della Repubblica per meriti sociali. Sento l’affetto della gente...».
Per strada, forse. In tv, con l’1,8%, un programma di solito viene chiuso.
«Senta: mi hanno chiesto di dare una mano a una rete chiamata Raiduepercento. Perché è quella la media di quella fascia oraria. L’idea era di rianimare un po’ lo slot, di far capire all’abbonato che non passano solo vecchi telefilm quattro volte di seguito. Mi fanno partire all’1,2%, poi devo scalare: facciamo la media del 2,4%. Non è tanto? Okay, ma non è nemmeno poco. E segnalo che siamo solo alla ventesima puntata».
Teme possano chiuderle il programma?
«Guardi, è una cattiveria che ha scritto Dagospia».
Dagospia ci prende quasi sempre. E, comunque, in sua difesa è dovuto intervenire Roberto Sergio, l’amministratore delegato della Rai.
«La verità è che ce l’avete con me perché ero sul palco di Giorgia... E, allora, le chiedo: quelli che invece vanno sul palco di piazza San Giovanni alla festa del Primo Maggio?».
Beh...
«No, certo... Massimo rispetto per i lavoratori. Volevo dire che...» (cade la linea. Insegno riprova a chiamare, ma ricade. Riprova ancora e, questa volta, non si accorge di essere in linea. Ora non è più Mel Gibson, ma Pino Insegno. Lo sento che dice: «... È il Corriere, devo capì che cazzo vonno scrive...». Poi si riprende e rimette su la voce gentile di Gibson).
«Ehm... Dicevamo?».