Domenicale, 29 ottobre 2023
Ritratto di Lartigue
Ho amato nel grande Jacques quello che non potrò mai avere: la leggerezza. Forse preclusa a un siciliano.
È stato l’unico enfant prodige della storia della fotografia. La fotografia era bambina e Lartigue, bambino anche lui, l’ha usata con una grazia e una felicità imperdonabili nel secolo dei massacri.
L’ho incontrato la prima volta nella sua bella casa non lontana dal Bois de Boulogne a Parigi. Era da poco uscito il suo primo libro, grande affresco sulla Belle Époque, impaginato come i tanti album che ha messo insieme per oltre mezzo secolo incollandovi le sue piccole fotografie, accompagnate da deliziose didascalie. In copertina, incastonato in un ovale, c’era una fotografia incantevole di Jacques bambino con in braccio una monumentale macchina fotografica di legno più grande di lui. Me ne ero innamorato.
Alla fine dell’incontro gli chiesi di fare una dedica al libro per mia figlia Francesca, ancora piccolina, alla quale lo avevo mostrato raccontandone la storia, e ne era rimasta affascinata anche lei. Lo mostrava ai suoi amichetti e agli ospiti che venivano a casa.
«La bambina», esclamò, «perché non l’hai portata? Io adoro i bambini». «È a scuola», risposi. Gli si disegnò sul volto un’espressione di tristezza.
«Perché la mandi a scuola?» mi chiese. «La scuola uccide la fantasia».
Lui non c’era mai andato. Figlio di un ricco banchiere, ogni tanto venivano a casa grandi scrittori, storici, critici d’arte, invitati dal padre, a raccontare al piccolo Jacques le cose del pensiero e della cultura. È stata questa la sua scuola.
Il suo diario, che scriveva tutti i giorni, comincia così: «Il mio primo ricordo è un giardino meraviglioso». Come la sua vita, come la sua luminosa sensibilità.
Come fotografo è stato scoperto ben oltre i sessant’anni. Dipingeva, voleva fare il pittore. L’aveva deciso dopo che sua madre lo aveva portato a vedere una grande mostra di Monet.
Quella volta aveva programmato di visitare New York, decise di andarci con una nave cargo, lenta, dove avrebbe potuto dipingere, e si era anche portato un po’ di fotografie da incollare in un album. All’arrivo le mostrò a Rago, vecchio amico e direttore di un’agenzia fotografica parigina. Rago vide l’album e ne rimase sconvolto. Le portò immediatamente a Richard Avedon, che, impressionato anche lui, le mostrò a John Szarkowski, allora direttore della sezione di fotografia del MoMA.
Detto fatto. Mostra al museo e immediata fama internazionale.
Lui stesso, peraltro, non sapeva di essere un grande fotografo e non gli importava. Le fotografie le aveva fatte per sé stesso, come, mi spiegò, in estate si fanno marmellate di albicocche quando sono al colmo del sapore e del profumo. Per conservare, di quel regalo della natura e della vita, una traccia. Ma a me, ribadiva, piacciono le albicocche appena colte, molto meno la marmellata. Il palpito di vita, fulmineo, irripetibile, prezioso.
Ci incontravamo spesso. Lo andai a trovare il giorno del suo novantesimo compleanno, in Costa Azzurra. Eravamo diventati amici. Gli chiesi di fargli dei ritratti tra i quali quello che vedete qui. Lucette lo fermò prima di andare in giardino: «Aspetta, Jacques, ti pettino».
Ecco la magia dell’irripetibile, così lartiguiana. Il novantenne Jacques, rimasto bambino, mentre si fa pettinare, e dietro, per aggiunta di necessaria casualità, una composizione che rappresentava un irraggiamento solare. Lartigue faceva seguire la sua firma da un piccolo disegno di sole.
È per questo che faccio fotografie: per approfittare di questi meravigliosi regali del caso.