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Era il 1930 e Agatha Christie, quarantenne già famosa per i suoi romanzi gialli, sposava in seconde nozze il più giovane archeologo Max Mallowan che seguirà costantemente nelle sue campagne di scavo in Mesopotamia, condividendone la vita in tenda e i disagi climatici. Con ironia la creatrice di 33 opere col famoso detective belga Hercule Poirot e di dodici con la sagace miss Marple confessava: «Ho scelto un archeologo perché più invecchio, più mi ama», ma soprattutto riconosceva che la metodologia di scavo e di identificazione delle sequenze stratigrafiche e documentarie erano per lei uno stimolo all’invenzione di trame complesse, costellate di enigmi.....
Certo è che questa disciplina, soprattutto ai suoi albori, rivelava una dimensione creativa capace di avvolgere il reperto nell’alone della ricostruzione che necessitava anche della spezia dell’immaginazione e persino della fantasia. Non per nulla, oltre ad essere stimolo letterario per i romanzi storici, l’archeologia era una sorta di filigrana simbolica a scritti narrativi quasi metafisici come Le città invisibili (1972) di Italo Calvino o il suo Castello dei destini incrociati (1973).
Arduo è ricomporre una storia di questa che è anche un’arte, perché l’arco delle sue ricerche copre territori e civiltà ben diverse tra loro. Si può, infatti, partire dalla preistoria e dalla paletnologia e scendere all’imponente e gloriosa “Mezzaluna fertile” coi suoi due corni straordinari, il mesopotamico e l’egizio, ma inseguendo al centro culture molteplici come l’hittita, la fenicia, la cananea, l’ebraica e così via. Subito, però, entra in scena il grandioso orizzonte classico greco-romano, la cui vastità brilla in tanti musei del mondo, a partire da quelli vaticani.
Essi sono stati idealmente generati in una mattina del 14 gennaio 1506 quando, da un terreno agricolo sul Colle Oppio, tra la basilica di Santa Maria Maggiore e il Colosseo, affiorò l’impressionante gruppo marmoreo del Laocoonte che papa Giulio II volle acquisire e collocare in Vaticano, in seguito al suggerimento di Michelangelo e dell’architetto Giuliano di Sangallo, e che si mostra ancor’oggi con la sua drammaticità nel Cortile Ottagono del museo Pio-Clementino. La selezione più ristretta di esempi delle scoperte archeologiche greco-romane si allarga: dai mitici scavi di Schliemann a Troia e Micene a quelli settecenteschi di Ercolano e Pompei, o alla meraviglia di Paestum, fino al pantheon di figure come Winckelmann, Ennio Quirino Visconti, Adolf Furtwängler.
Oltre all’assidua frequentazione dei siti dell’antico Vicino Oriente, desidero riservare una testimonianza personale all’archeologia cristiana che ha avuto in Terrasanta una presenza sistematica di grande operosità scientifica nella scuola dei Francescani. Sono i luoghi che si affacciano in tante pagine evangeliche, naturalmente a partire da Gerusalemme, ove s’incrociano le tre religioni abramitico-monoteistiche, per proseguire con toponimi noti a tutti come Betlemme, Nazaret, Cafarnao, Gerico, Cesarea e così via.
A Roma, invece, oltre alla necropoli vaticana con la tomba di Pietro sotto l’omonima basilica, si stende l’immenso reticolo delle catacombe, i cimiteri cristiani dei primi secoli.
Esse hanno avuto in Giovanni Battista de Rossi (1822-1894) l’artefice della loro riscoperta con l’archetipo della Tricora di San Callisto: a lui si deve la fondamentale Roma sotterranea cristiana (1844). Applicando un proverbio di origine ispanica, dedicato però alle biblioteche, questa rete catacombale di decine e decine di chilometri in un centinaio di siti diversi della capitale ma anche di tutta l’Italia centro-meridionale e insulare, è «il luogo nel quale i morti aprono gli occhi ai vivi» attraverso la loro testimonianza di fede nell’immortalità. L’onore che ho avuto di presiedere per anni la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra – istituita nel 1852 da Pio IX, destinata alla custodia e valorizzazione delle catacombe e inserita da Pio XI nel Concordato con lo Stato Italiano (art. 33) – mi ha permesso a più riprese di scoprire attraverso gli affreschi e le varie attestazioni epigrafiche proprio questo legame tra l’arte e la fede e speranza cristiana.
Non di rado esso si è manifestato nel dialogo tra la nuova religione e la classicità, come nel caso del Cristo raffigurato secondo l’iconografia di Orfeo che al suono della sua cetra attira le anime, un’immagine che ho assunto nel 2010 per la comunicazione del mio cardinalato. D’altronde, come si è già detto, certe sezioni dei Musei Vaticani attestano questa passione archeologica di alcuni pontefici: il Museo Chiaramonti (papa Pio VII) è una sorta di «foresta» statuaria greco-romana e la Galleria Lapidaria è un’incredibile «biblioteca» di pietra di 3.614 epigrafi dal I secolo a.C. al VI secolo d.C., per non parlare poi della triade museale voluta da papa Gregorio XVI, il Gregoriano Egizio, il Gregoriano Etrusco, e il Gregoriano Profano.
Tante altre note meriterebbe una presentazione di questa disciplina che dalle metodologie di scavo del passato, segnate anche da esperienze avventurose e indagini suggestive, è ora affidata a tecnologie sofisticate in continua evoluzione (chimiche, metallurgiche, informatiche, termoluminescenti, subacquee etc.). Dal secolo scorso, poi, oltre all’esplorazioni in altre attestazioni di civiltà lontane, come le aree latino-americana, indiana, australiana, l’archeologia ha aperto un campo d’indagini persino nei resti della rivoluzione industriale.
A suggello di questo libero e minimo excursus vorremmo ricordare che l’archeologia interpella e persino coadiuva la stessa teologia perché la religione ebraico-cristiana è di sua natura storica, coinvolgendo perciò anche lo spazio abitato, oltre al tempo, come sede delle epifanie divine. Vorremo, però, porre a epigrafe ideale un’affermazione di Alexandre Dumas padre, l’autore del Conte di Montecristo e I tre moschettieri, che dichiarava nelle sue Impressioni di viaggio: «L’antiquité est l’aristocratie de l’histoire».