Nicola Mirenzi per il Venerdì – La Repubblica, 28 ottobre 2023
“SUSAN SONTAG SI VERGOGNAVA DI ESSERE LESBICA” - IL PREMIO PULITZER BENJAMIN MOSER RACCONTA IN UN LIBRO TUTTI I VOLTI DELL’ ULTIMA "STAR LETTERARIA AMERICANA”: ROMANZIERA E INTELLO’ DI POTERE. MOGLIE INFELICE, AMANTE LIBERA, LESBICA RETICENTE – IL PRIMO LIBRO CHE PORTA LA FIRMA DI SUO MARITO (CHE DIVENTO' OGGETTO DI UN BARATTO NELLA CAUSA DI SEPARAZIONE: LEI GLI DIEDE IL TESTO, LUI LE LASCIO' IL FIGLIO), IL SESSO "CHE NELLA SUA VITA È RIMASTO FONDAMENTALMENTE UN’IDEA" E LE ANFETAMINE USATE PER LAVORARE DI PIÙ... -
Benjamin Moser ha iniziato a frequentare Susan Sontag quando lei era morta da tempo: «Per otto anni sono stato al suo fianco giorno e notte. Con lei ho girato il mondo. Ho conosciuto i suoi successi e i suoi fallimenti. Ho seguito l’evoluzione della sua mente. È stata l’ultima grande star letteraria americana. Ma la sua immagine oggi sovrasta la sua opera. La gente la cita ancora. In pochi però la leggono».
Scomparsa all’età di settantuno anni il 28 dicembre del 2004, Susan Sontag è resuscitata nella biografia con cui Moser ha vinto il premio Pulitzer, oggi tradotta in italiano da Rizzoli con il titolo Sontag. Una vita. «Scrivere di qualcuno che è morto» dice «significa tentare di riportarlo al mondo. Ma una biografia non riproduce la vita di una persona. È una storia. In questo caso, è la mia storia. L’ho scritta per invitare la gente a leggerla, a conoscerla, a confrontarsi di nuovo con Susan».
(…) Carismatica. Insicura. Arrogante. Geniale. Debole. Crudele. Ambiziosa. Masochista. Coraggiosa. Intelligente. Spaventosamente priva di empatia. Susan Sontag non è stata una persona: è stata almeno due persone diverse. La scrittrice che ha creato un modello di autorevolezza culturale al femminile, e la donna vulnerabile. L’intellettuale di potere,che decideva carriere con uno scritto, e l’amante in balìa delle sue partner. La testimone impavida, e la donna che si vergognava di essere lesbica. «Tutti indossiamo delle maschere per stare al mondo» dice Moser.
(…) È incredibile che abbia detto solo pochi anni prima di morire di essere lesbica. «È stata la sua tragedia personale, all’interno di una tragedia storica. Ancora fino a pochi anni fa, le persone omosessuali erano emarginate violentemente nelle nostre società. Leggere Susan Sontag significa anche questo: accorgersi dell’enorme libertà che le minoranze hanno conquistato nel tempo».
Ha ancora qualcosa da dire ai movimenti Lgbtq+ di oggi? «Avrà sempre qualcosa da dire alle persone che si sentono soffocate dalla società, che ambiscono a qualcosa di più alto dei modelli televisivi e che vogliono impegnarsi per raggiungerlo. Nello specifico: non si è mai pronunciata sul matrimonio omosessuale. Anni fa, non era un tema all’ordine del giorno. Ma credo che l’avrebbe approvato, in nome dell’uguaglianza. Anche se difficilmente si sarebbe risposata dopo il primo, disastroso matrimonio che ha avuto».
Si è sposata con un professore, una settimana dopo averlo conosciuto, a 17 anni. «Insieme hanno avuto un figlio, David,, diventato oggetto di uno scambio crudele». Quale? «Il vero primo libro di Susan Sontag è un testo fondamentale su Sigmund Freud, The mind of a moralist (pubblicato in Italia come Freud moralista, ndr). Il dettaglio è che porta la firma di suo marito, Philip Rieff. Susan lo scrisse dopo aver avuto David a 19 anni, e nella separazione fu barattato con il marito: lei gli cedeva il testo, lui il figlio».
Lei sostiene sia falso che Sontag sia stata una grande saggista e una pessima romanziera. Perché? «È il luogo comune più tenace intorno alla sua opera. È un giudizio che tutti ripetono in continuazione, forse perché così hanno l’occasione di sminuirla, di sentirsi per un attimo superiori a lei. Invece, trovo che alcuni suoi saggi siano mal riusciti, mentre alcuni romanzi sono eccellenti. Per esempio, L’amante del vulcano».
La sua dimensione politica, però, era molto forte. «In realtà è una dimensione che ha sviluppato nel tempo. Da giovane ha vissuto nella Francia sull’orlo della guerra civile senza neanche accorgersene. Ha scritto reportage da Cuba, immediatamente dopo la rivoluzione, citando Castro solo per le sue opinioni sulla poesia. Era tipico della generazione di scrittori americani dell’immediato secondo dopoguerra. Come Kerouac, erano dediti all’esplorazione del mondo e di sé, più che alla politica».
Poi la guerra in Vietnam cambia tutto. «Sontag diventa una scrittrice radicale che applica il suo discorso sulle metafore al linguaggio politico. Scrive reportage dalla guerra, con risultati altalenanti».
Ma negli ultimi decenni della sua vita subisce un’altra mutazione: da radicale si trasforma in una bandiera delle idee liberali. «Fu decisivo l’incontro con il poeta russo Josif Brodskij, con il quale intreccerà anche una relazione sentimentale. È lui che le fa realmente comprendere l’anticomunismo degli scrittori perseguitati dal regime, che lei aveva letto e in alcuni casi anche conosciuto di persona, ma senza capirli davvero. Il processo arriverà al culmine quando il 2 febbraio 1982 denunciò il comunismo in un evento alla Town Hall di New York che diventò celebre».
Poi difenderà Salman Rushdie dalla fatwa di Khomeini. «Mentre altri scrittori erano terrorizzati di parlare. Avevano ucciso il traduttore giapponese di Rushdie. Accoltellato e picchiato quello italiano. Assassinato l’editore norvegese. Alcuni scrittori erano arrivati a biasimare Rushdie per la catastrofe generata dal suo libro. Susan li rimise in riga, e organizzò letture pubbliche dei Versetti satanici. Furono interventi che diedero coraggio a Rushdie, che era molto demoralizzato dall’“ostilità non islamica” che vedeva intorno a sé».
La storia di Sarajevo come iniziò? «Andò lì per stare vicino al popolo bosniaco, massacrato dai serbi a un’ora di volo da Roma, come da tutte le altre capitali europee. Rischiava di essere uccisa in qualsiasi momento dal colpo di un cecchino. Mise in scena Aspettando Godot mentre in America in molti dicevano: “Ma che ci fa quella vecchia isterica laggiù?”. Oggi però la piazza antistante il teatro nazionale di Sarajevo porta il suo nome».
Com’è possibile che una scrittrice che negava il suo corpo ne facesse un’arma della sua battaglia culturale? «Il modello che si era data, nella sua grandiosità, era Socrate, il filosofo disposto a morire per la verità. Era affascinata dagli scrittori che erano andati a combattere il fascismo in Spagna, mettendo in gioco la propria vita. Per lei la letteratura non era un esercizio di stile. Credeva, con Michel Leiris, che sia necessario mettersi in pericolo per quel che si scrive. Altrimenti, la letteratura si riduce a gioco narcisistico».
È politica la sua influenza più duratura? «Credo che il più grande risultato l’abbia ottenuto scrivendo Malattia come metafora. Prima che lei lo pubblicasse il cancro era vissuto come una vergogna e una colpa nel mondo occidentale. Oggi non è più così, e quel libro ha dato un contributo decisivo a questa metamorfosi. Uno scrittore non può fermare Putin o Hamas. Quello che può fare è cambiare il modo in cui la realtà viene percepita. Il primo passo di qualsiasi cambiamento. È un’influenza enorme. Non nell’immediato. Ma nel lungo periodo».
Oggi come vivrebbe nel nostro mondo? «Credo che rischierebbe di essere “cancellata” in continuazione. Era una donna che facilmente mandava a quel paese qualcuno che si avvicinava per dirle una scemenza. Basterebbe uno smartphone che riprende la scena, oggi, e addio Susan Sontag».
Lei definisce «olimpica» la sua vita sessuale. «Poche donne del suo tempo hanno avuto amanti, maschi e femmine, tanto numerosi, belli e illustri. Eppure nella sua vita il sesso è rimasto fondamentalmente un’idea. Voleva superare la separazione tra il suo corpo e la sua mente. Ma le sue attrazioni rispondevano spesso a stimoli di natura intellettuale». Usava le anfetamine per lavorare di più. «Al tempo non si conoscevano gli effetti collaterali di queste sostanze. Sembrava realizzassero il sogno di ogni scrittore: quello di prendere una pillola e riuscire a scrivere il doppio di quel che normalmente può fare». Per quanti anni le ha usate? «Per venticinque, trent’anni. Ma la cosa più sorprendente è che quando capì che era ora di smettere, scrisse un lungo saggio su Sartre (rimasto inedito) in cui lo accusava di aver distrutto la propria mente, una delle “più fertili e generosamente dotate del secolo”, abusando delle anfetamine. Ancora una volta: senza mai confessare che lei aveva fatto lo stesso».
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