il Giornale, 28 ottobre 2023
La Sarfatti e il Duce geloso degli Usa
Nel marzo 1934, quando si imbarca per raggiungere gli Stati Uniti, Margherita Grassini Sarfatti è una stella del firmamento fascista – un tempo luminosissima – prossima allo spegnimento. Fascista della primissima ora. Sansepolcrista e marcia su Roma. Madre del più giovane eroe della Grande Guerra. Legata sentimentalmente a Mussolini, sua consigliera e biografa ufficiale. Signora incontrastata delle arti. Propagandista internazionale della nuova Italia littoria. Giornalista, scrittrice e direttrice della testata più mussoliniana, Gerarchia.
Il conto alla rovescia è già iniziato. Il Duce l’ha messa alla porta dal Popolo d’Italia. All’esposizione allestita a Roma per il decennale della rivoluzione fascista non è stata chiamata a collaborare, né invitata all’inaugurazione. È stata rimossa dalla direzione di Gerarchia. Molti fanno finta di non riconoscerla, non la invitano, la criticano apertamente. Giunta in America tiene un’affollata conferenza alla Casa Italiana di New York. Tutti la vogliono incontrare. Gli abiti della sartoria parigina di Elsa Schiaparelli, indossati con grazia a ogni apparizione pubblica, seducono alla pari del suo inglese fluente. Il presidente Roosevelt e la moglie Eleanor la ricevono alla Casa Bianca. Tornata in Italia constata il proprio fallimento. Il potere nelle arti è sfumato. Mussolini ha perso ogni interesse per la «signora Sarfatti»: non la vuole più come amante, collaboratrice e consigliera.
Nel maggio ’37 esce presso Mondadori il resoconto del viaggio: L’America, ricerca della felicità. Il saggio – ripubblicato da Liberilibri (pagg. 342, euro 24, con prefazione di Pietrangelo Buttafuoco) – è stato scritto in inglese, nella speranza, rivelatasi vana, della pubblicazione americana (il suo Dux, uscito in inglese nel 1925 – in Italia apparve l’anno dopo – aveva riscosso successo e ammirazione). L’autrice si tiene alla larga da pregiudizi e luoghi comuni usuali dell’antiamericanismo fascista ed europeo. Osserva come l’America sia il prolungamento dell’Europa, il centro della civiltà bianca in Occidente. New York le appare il riflesso in grande di Londra. È una città traboccante di passato, poiché ci vivono etnie (e storie) diverse: europee, asiatiche, latino-americane. New York si identifica con i grattacieli, che hanno lo stesso significato avuto un tempo dalle cattedrali: «tutti gli edifici verticali furono sempre affermazioni d’impero. E quel che mi piace del grattacielo è proprio il carattere antieconomico, disinteressato, idealista e metafisico della sua enormità». La rivalità fra le grandi città su chi possiede i grattacieli più belli le ricorda la competizione, nel passato, tra Orvieto e Siena su chi avesse le cattedrali più belle. Nonostante gli evidenti squilibri, e la povertà diffusa, gli americani hanno costruito un mondo moderno della civiltà bianca, certamente ricco di contraddizioni, grandezze e storture. L’impressione è di vedere rivivere «una novella Roma irrequieta». Il patriottismo è «spontaneo quanto il nostro, sebbene più venato di sfumature, e insieme più enfatico di quanto non sia in talune vecchie nazioni di qua dell’acqua».
Nel 1835 l’America ebbe un visitatore di eccezione: Alexis de Tocqueville. La descrisse nei giusti termini, dandone un’immagine profetica. Un secolo dopo Margherita si sforza di indicare la stessa via. Sono cambiate tante cose dal viaggio di Tocqueville, ma l’America resta il Paese dove si può ricercare la felicità. L’interpretazione che è stata data recentemente, in sede storiografica, di L’America, ricerca della felicità, è duplice. Deve intendersi un punto di vista ortodosso, strettamente orientato al rispetto dell’ideologia (antiamericana) fascista. Oppure, dall’angolazione opposta, deve intendersi l’ammissione del fallimento della missione del fascismo. Non è nell’uno né l’altro. Margherita Sarfatti celebra la modernità americana. Ma non ha intenzione di stilare l’atto di morte della modernità fascista. Anche se il paragone è suggestivo, equiparare la profezia ottocentesca di Tocqueville sul declino della civiltà europea con quella novecentesca della Sarfatti sul declino della civiltà fascista, può avere un fondamento: ma estetico, metafisico, religioso. Non certo politico.
Nel ’37 Margherita non poteva avvertire che l’Europa sarebbe diventata il teatro di una guerra mondiale, né che il mondo, dopo la guerra, si sarebbe americanizzato.
Rientrata in Italia, si reca da Mussolini per esporgli la sua valutazione in merito agli incontri avuti. Gli manifesta la propria favorevole considerazione sull’America. Mussolini, infastidito, taglia corto, ponendo fine alla discussione. L’uscita italiana di L’America, ricerca della felicità ebbe scarsa accoglienza. Nel ’37 Margherita non ha smesso di credere nel fascismo. Al contrario: è il fascismo che ha smesso di credere in lei. Magari ha smesso di credere in Mussolini. E non perché stesse indirizzando il fascismo in una strada errata. Ma perché non è più lei a indicare – alle dipendenze, in parziale o in totale autonomia – il percorso da seguire. A un anno di distanza, la «regina della cultura» si vede costretta a una scelta drammatica. Deve abbandonare l’Italia.
Nel luglio del ’38 sono state approvate le «leggi razziali». Margherita Grassini Sarfatti, nata ebrea nel 1880 a Venezia, successivamente convertitasi al cattolicesimo, femminista, socialista, nazionalista, interventista e fascista (sempre per convinzione, mai per convenienza), è un corpo estraneo. Il suo mondo è crollato. Emigra nell’America del Sud, perché quella del Nord si rifiuta di accoglierla. Il fascismo, spietatamente ha divorato uno dei suoi figli migliori.