il Giornale, 28 ottobre 2023
Il dizionario di Feltri
A volte quasi mi persuado che la guerra al dizionario della nostra ricca lingua sia stata vinta dai sacerdoti del politically correct e che per noi, poveri tapini, non ci sia verso: siamo stati sconfitti e ci tocca adeguarci al nuovo misero lessico o tacere. Dovremmo rassegnarci. Oppure insorgere con irriverenza e menefreghismo, ossia senza temere l’inevitabile condanna sociale. Sarebbe opportuno, ai fini di questa rivoluzione, sdoganare quei sostantivi e aggettivi oggigiorno censurati, manovrando i quali, soprattutto noi giornalisti, rischiamo di essere perseguiti e pure perseguitati. Mi riferisco, ad esempio, al termine clandestino. Nell’ottobre del 2019 Andrea Manfrin, giornalista e consigliere regionale nonché capogruppo leghista della Valle d’Aosta, ha digitato tale termine riferendosi ai migranti che raggiungono illegalmente l’Italia, e il Consiglio di disciplina territoriale dell’Ordine dei giornalisti della Valle d’Aosta gli ha comminato la pena di tre mesi di sospensione dall’esercizio della professione, in quanto egli avrebbe violato la Carta di Roma, recepita nel testo unico dei doveri del giornalista, secondo cui questi «nei confronti delle persone straniere adotta termini giuridicamente appropriati» evitando «la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti». Tuttavia, clandestino non è voce offensiva. Si legge sul vocabolario: «Clandestino è colui che si trova o opera in una situazione irregolare, senza l’approvazione dell’autorità o contro il divieto delle leggi vigenti». Quindi, Manfrin era ricorso a una voce della lingua italiana priva di intenzione denigratoria ma che descrive la condizione giuridica di chi, in violazione delle norme in vigore, varca le frontiere di uno Stato scegliendo vie non legali che gli consentano di aggirare ogni regola. Del resto, non esiste alcuna norma che autorizzi i cittadini di altri Paesi a mettersi in mare per trasferirsi in Italia, addirittura senza documenti. Di contro, semmai esiste il reato di clandestinità, cioè il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, ed esistono altresì i clandestini, che dalle nostre parti sono parecchi. Peraltro, preme sottolineare che il post incriminato in quanto contenente la parola vietata clandestino era stato pubblicato da Manfrin su un profilo Facebook personale e non in un articolo, quindi non si capisce perché l’Ordine sia intervenuto decidendo addirittura di punire il consigliere, forse colpevole di essere leghista. È grave sintomo di superficialità guerreggiare contro le parole. Ed è disonesto strumentalizzarle per sguazzare in un vittimismo bieco e inutile, atteggiamento che appare molto in voga negli ultimi anni, o per compiere attacchi ideologici nei confronti di chi non riusciamo a digerire. La lingua non è qualcosa di statico, bensì di vitale: essa è organismo che muta in continuazione. Tuttavia, adesso è il politicamente corretto a determinare una distinzione manichea tra ciò che è ammesso proferire e ciò che è severamente vietato pronunciare, pena lo stigma (a vita) di intollerante. Nell’epoca della libertà tracimata in dissolutezza e libertinaggio possiamo essere disinvolti nei costumi ma guai a esserlo tanto più se rivesti un ruolo politico o sei iscritto all’Ordine dei giornalisti nell’uso del vocabolario, il quale richiede l’osservanza di rigide norme sociali, stando bene attenti a non inciampare in aggettivi o sostantivi che fanno perdere la faccia e danneggiano la reputazione. Si dia il caso appunto che coloro i quali adoperano la parola clandestino, nonostante si tratti di un termine prettamente giuridico, siano per ciò stesso fascisti, razzisti, estremisti di destra, ignoranti e incivili. La guerra al dizionario si fa sempre più aspra. E questo è sintomo della nostra superficialità nonché di un perbenismo di facciata, sterile, finto. Ecco perché non si tratta di un progresso. Ci siamo convinti che le sillabe possano veicolare dei giudizi morali e non semplicemente indicare o descrivere qualcosa. Ecco dunque che dire clandestino equivale, almeno per i seguaci del politicamente corretto, a esprimere una valutazione personale negativa, di inferiorità, riferita pure all’origine etnica, dal momento che clandestino non può essere un italiano o un altro cittadino europeo e lo è soprattutto chi giunge dal continente africano, ovvero chi è di colore. È una schizofrenia, questa pretesa di epurare il linguaggio da quelle voci a cui da sempre ricorriamo e alle quali non abbiamo mai attribuito alcuna funzione insultante. Dunque clandestino non si può più scrivere, eppure tale vocabolo descrive efficacemente una condizione giuridica e non è mica una ingiuria. Siccome adesso abbiamo tanti neri in Italia è bene non chiamarli negri e siccome abbiamo tanti immigrati illegali è bene non chiamarli clandestini. Peccato che codesti assunti siano privi di logicità e si fondino su considerazioni fondamentalmente di tipo razzistico. Noi che adoperiamo il termine clandestino intendiamo con chiarezza e incisività descrivere lo status della persona a cui ci riferiamo, ossia indicare che tale persona, la quale non ci permettiamo di giudicare dal punto di vista morale, semplicemente si è insinuata e insediata in maniera non regolare, quindi illegale, sul territorio dello Stato italiano, cioè clandestinamente. E la constatazione, così come l’affermazione, di questo stato di fatto non può rappresentare una discriminazione o un delitto. Essa costituisce una mera e oggettiva informazione priva di qualsiasi contenuto valoriale o giudicante. Ecco la ragione per la quale è inaccettabile che un giornalista venga condannato dall’Ordine che dovrebbe tutelarlo in quanto ha fatto ricorso alla parola clandestino. Il cronista non è scivolato in alcun errore o delitto, essendosi limitato a spiegare con poche sillabe una situazione de facto. Per quanto mi riguarda, io seguiterò ad adoperare codesto termine proprio del lessico giurisprudenziale, con la consapevolezza di non arrecare danno né ai clandestini né alla lingua italiana. Dannoso sarebbe semmai affermare che un clandestino non sia clandestino, ovvero negare la verità soltanto perché ci appare poco carina. La verità non deve essere carina, piuttosto meglio che faccia schifo. Se ci tocca renderla graziosa, la trasformiamo in menzogna. **** Oggigiorno se dichiari di coltivare il valore della patria, vieni guardato come se fossi Matteo Messina Denaro, o anche con maggiore disgusto e disprezzo. Ami la patria? Benissimo, sei un criminale. Punto. Patria è una parolaccia. Patriota un insulto. Patriottismo, invece, una sorta di spirito fascista o nazista, sebbene il concetto di patria sia molto antico, ovvero di matrice greca, e non certamente ascrivibile alla nascita dei totalitarismi, semmai alla nascita della democrazia. Insomma, ci ritroveremo presto a parlare di nascosto di patria, dichiarandole amore, come i carbonari prima dell’Unità d’Italia. Patria è padre, ma anche madre, soprattutto nella lingua italiana, infatti si dice madrepatria. E la mamma è il nostro primo amore, per tutti, maschi e femmine, colei che non ci tradirebbe mai. Quindi, patria è famiglia. E si sa che le famiglie, purtroppo, possono pure fare tanto schifo, i parenti ci stanno spesso sulle scatole, fratelli, sorelle, cugini, zii, persino i genitori, o i figli, chi di noi non vorrebbe talvolta mandarli al diavolo e quanti di noi lo hanno fatto o lo fanno non di rado e volentieri? Eppure non possiamo fare a meno di amarli, di perdonarli, di tornare da loro, di rincasare. Così facciamo nei confronti della patria, la denigriamo, ce ne lamentiamo, poi andiamo in vacanza negli Stati Uniti, ci mettono davanti la pizza con l’ananas e rimpiangiamo le lasagne della nonna, divorate nel corso di quei lunghi e tediosi e chiassosi pranzi domenicali quando avremmo tanto voluto levarci dalle balle per non subire ancora i familiari di primo, secondo e terzo grado. E all’improvviso ci sentiamo più italiani che mai e più fieri che mai di esserlo. Essendo quello di patria un concetto assolutamente politico riferito a una entità statale, ossia a una Nazione, a uno Stato con precisi confini, un popolo, una sovranità, va da sé che ai progressisti globalisti genera una sorta di voltastomaco. Se dici patria si rivoltano contro di te, pronti ad attaccare come bestie rabbiose, in quanto patria rimanda a un noi, popolo, che esclude un loro, immigrati, a dei limiti geopolitici che non possono essere travalicati o annullati, a un popolo che non è quella comunità globale, tutta omologata e appiattita, che vorrebbe la sinistra, a una sovranità nazionale che la sinistra medesima pretende di cedere per intero a organismi sovranazionali, lasciando al popolo sovrano le briciole. Eppure non esiste cittadino europeo che, rientrando in Europa, affermi di stare facendo ritorno in patria, patria è ancora per ciascun cittadino europeo, francese, spagnolo, danese o tedesco che sia, il proprio Stato, quello in cui è nato. E questo senso di identità, che è anche un sentimento di amore oltre che di appartenenza, nessuno potrà mai strapparcelo dal petto. Cosa diavolo c’è di malato, di insano, di pericoloso, di controproducente, di dannoso, di minaccioso nell’amor di patria? Un bel niente. Si tratta piuttosto di un valore che eleva il cittadino, che lo nobilita, che lo induce a integrarsi nella società di cui è parte contribuendo al suo progresso, che lo fa sentire parte di una famiglia, la famiglia-patria o la patria-famiglia, conducendolo altresì a porsi al servizio della società stessa. Non è un caso, infatti, che all’interno delle forze dell’ordine tutte tale valore venga protetto. Ma alla sinistra tutto ciò non va bene. Vorrebbe che la patria venisse odiata, il concetto di patria demolito, il patriottismo avversato, allo scopo, appunto, di dare luogo a un mondo utopistico e mostruoso, senza confini, senza barriere, senza identità, senza storia (ecco perché si mira a cancellarla o a riscriverla), senza maschi e senza femmine, un mondo dove tutto è genere neutro, nulla ha una propria identità e l’individuo è numero senza opinioni dissonanti rispetto a quelle della maggioranza. Invece a noi piacciono le radici, poiché se queste non attecchiscono, se non sono avvinghiate al terreno, l’albero non cresce, non produce frutti, bensì deperisce e infine muore. Essere patrioti non significa odiare chi proviene da fuori o chi è diverso. Essere patrioti significa semplicemente amare ciò che si è.