il Giornale, 28 ottobre 2023
Il direttore d’orchestra che dirige da morto
Forse il sogno dell’«immortalità» non è poi così assurdo e lontano. Se non a quella fisica, almeno a quella «mentale», prima o poi si potrebbe arrivare. Lo spunto per cominciare a ipotizzarlo, anche se timidamente, arriva dalla Biennale musica di Venezia, diretta da Lucia Ronchetti, festival dedicato alla contemporaneità, che, quest’anno, tra le sue proposte ne ha una davvero particolare, che mette (un po’) i brividi. Evoca scenari alla Matrix, il film cult dove in un mondo distopico e virtuale, esseri umani dormienti sono attaccati a fili e a macchine controllati dalla IA ormai suprema e dilagante sulla Terra. Ma veniamo al dunque. Un compositore, Alvin Lucier, qualche anno fa, prima della sua morte, ha donato il sangue a un pool di ricercatori-musicisti, che hanno trasformato le sue cellule ematiche in cellule staminali e queste, infine, in una rete neurale. Risultato: la «rete», messa in relazione con degli elettrodi, a Venezia, mercoledì sera a Ca’ Giustinian, è stata usata per il concerto «Music for Surrogate Performer». Le cellule in questione, debitamente sollecitate, hanno mostrato una certa «vivacità», spirito d’indipendenza e d’iniziativa, mandando input, dialogando in maniera percussiva con un batterista, facendo «suonare» tamburi. La cosa ha sconcertato il pubblico, non poco. E lo ha sconcertato ancor di più quando l’altra mattina, nella Biblioteca dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee, è stata proposta, sul tema, una tavola rotonda con alcune personalità coinvolte nel progetto, sperimentatori, musicisti e studiosi del calibro di Guy Ben Ary, Ali Nikrang, Yoko Shimizu e Nathan Thompson, con la conduzione di Gerfried Stocker, che hanno spiegato per filo e per segno che cosa è successo, la sera prima. Raccontando pure l’iter della ricerca che si chiama «cellF» e che è iniziata nel 2015 mettendo insieme artisti, musicisti e scienziati per «creare il primo sintetizzatore modulare analogico biologico basato sui neuroni, o performer surrogato cibernetico». Detto in soldoni: un congegno, con materiale umano (le cellule, appunto) e circuiti elettronici, che nascendo ha dato vita anche «a un nuovo filone nell’ambito della performance e della produzione sonora». In un progetto in cui il «cervello, staccato dal corpo, è costituito da reti organiche coltivate su una piastra Petri (recipiente di vetro o plastica usato in biologia per la crescita di colture cellulari)», è stato illustrato dagli esperti. Fin qui, la parte tecnico-musicale-sperimentale, la quale a detta del pool all’incontro nella sua rappresentazione e spettacolarizzazione non vuole e non può avere «la precisione che ha la scienza»; il tutto andrebbe visto pure sul piano filosofico, con le domande e le implicazioni etiche che sono già sorte. Ovvero: le cellule usate per questi concerti conservano ancora la memoria del «donatore»? Si possono considerare un pezzo di Lucier ancora attivo? E ancora: «In che modo vanno considerate, inquadrate e rispettate?». Sbigottimento in sala. Le risposte, andando avanti con lo studio, forse arriveranno. Per il momento, si può dire che, grazie alle biotecnologie, è nata un’«intelligenza in vitro» e che la vita dopo la morte potrebbe non essere più solo e soltanto un sogno, un’idea o un film di fantascienza, alla Matrix.