Corriere della Sera, 28 ottobre 2023
Come combattere l’ansia
Il dottor Rosario Sorrentino ha appena finito di dire che, per curare gli attacchi di panico, oltre ai farmaci, è fondamentale «svegliarsi presto, fare attività fisica, soprattutto camminare molto, non fumare, non bere alcol né caffè». E Giulia, Sorrentino di cognome anche lei: «Papà, stamattina, di caffè ne ho preso solo uno, posso berne un altro?». Lui, accigliato: «Andiamo avanti».Oltre che padre e figlia, Rosario e Giulia sono anche medico e paziente: il celebre neurologo l’ha curata e guarita dagli attacchi di panico e ora hanno scritto a quattro mani per la Compagnia editoriale Aliberti, il libro Panico 2.0 – Un disturbo che si può vincere. Lui è già autore di best seller come La paura ci può salvare (Solferino Editore), lei studia Medicina per diventare psichiatra e scrive per Libero. Dice: «Papà è la persona che spero di diventare. Da bambina, gli chiedevo: mi spieghi il morbo di Parkinson? E lui: amore, sei piccola. Lo vedevo sempre al telefono, chiedevo: non puoi staccare? E lui: no perché le persone stanno male». Racconta che, ora, ha inseguito il padre per un anno, pregandolo di scrivere il libro con lei.
Perché ci teneva tanto?
«Perché mi ha curato e mi ha ridato la stabilità mentale persa. E perché volevo essere utile agli altri, ma non avevo titoli e preparazione per scrivere un libro né avrei voluto farlo con altri».
Dottore, lei perché si è fatto pregare?
«Perché sapevo quanto le sue domande potessero essere incalzanti e immaginavo il backstage: lei scrive periodi lunghi, io brevi; lei ha una punteggiatura, io un’altra…».
Lei: «Dice così, ma si è appassionato. Si alzava alle cinque, se gli veniva un’idea».
Lui: «Volevo che passasse il concetto che, quando si cura un paziente, su certe regole non si negozia. Nel dare prescrizioni, posso apparire autoritario, ma solo così si possono ottenere risultati».
Giulia, quando e come arriva il primo attacco?
«Dieci anni fa, a 17 anni e senza spiegazione. Andava tutto bene. Stavo tornando a casa dopo il parrucchiere e inizio ad avvertire tachicardia, fame d’aria… Ho sentito gambe e braccia che si staccavano, pensavo di avere un ictus, ero certa che stavo per morire».
Lui: «La terapia s’inizia solo se l’episodio si ripete periodicamente e se la paura che torni condiziona la vita. Ma già alle prime avvisaglie, è bene acquisire abitudini sane. Infatti, abbiamo dedicato un capitolo all’attività aerobica che è di per sé terapeutica».
Lei: «Io faticavo a uscire di casa, ho iniziato a evitare gli amici per non spiegare i miei comportamenti strani. Soprattutto, gli attacchi hanno portato la depressione e ritardato gli studi».
La causa, dottore, qual è?
«Io definisco l’attacco di panico “la bugia del cervello” che, anche se sei in pieno benessere, ti vuole convincere di un pericolo che non c’è. Alla base può esserci un trauma da abbandono e c’è una predisposizione genetica slatentizzata da eventi stressanti come un lutto, un trasloco. Questi eventi creano condizioni biochimiche che impattano sul sistema di allarme dell’amigdala, il quale segnala pericoli inesistenti».
Che cosa bisogna fare in caso di attacco?
«Devi parlare al panico come se fosse una persona, dirgli che hai altro da fare. Se lo fai, attivi un network neuronale che accompagna piano piano le idee catastrofiche alla porta. C’è anche la tecnica del cassetto: bisogna selezionare due o tre ricordi belli e, quando si sta male, concentrarsi su quelli. O, fare altro, distrarsi, riordinare casa. L’attacco si può gestire, bisogna arrivare a dire, come per un mal di testa: scusate, ho un attacco di panico, torno fra cinque minuti».
Che cosa devono o non devono fare familiari e amici?
«Non devono mai chiedere: come ti senti? Ma devono distrarre la persona, farla parlare d’altro».
Lei: «Il mio fidanzato m’interrogava sui numeri divisibili per tre finché l’attacco passava. Poi, un po’ alla volta, ho iniziato a pensare: non sono colpevole di essermi ammalata. Ho smesso di nascondere il disturbo. A cena fuori, prendevo platealmente gli psicofarmaci, stufa di chi chiedeva perché non bevevo vino».
Lui: «C’è un pregiudizio sociale verso gli psicofarmaci, che sono essenziali e non creano dipendenza se non si fa il fai da te. A volte, può essere utile associare una psicoterapia breve cognitivo comportamentale».
Giulia, com’è stare bene?
«Mi è venuta la voglia di riprendermi quello che mi è stato tolto, per cui in 24 ore faccio tantissime cose. Ho anche scritto a Papa Francesco per chiedergli di prendere posizione sulle malattie mentali e sto organizzando presentazioni del libro nelle carceri. Mi è venuta voglia di aiutare gli altri, come ha fatto sempre mio papà».