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 2023  ottobre 27 Venerdì calendario

Fantoni racconta Fantozzi

Anticipiamo uno stralcio di “Operazione Fantozzi”, un omaggio di Gianni Fantoni al Maestro Paolo Villaggio, fresco di stampa con Sagoma.
La sua leggenda lo voleva scorbutico, scostante, inaffidabile, con un rapporto particolare verso il denaro; molti racconti a mezza voce lo confermavano, dalle fonti più disparate, alcuni rincarando le dosi ora qui, ora là. Io, però, non volevo crederci. Decisi di rimanere ottimista.
Accordarci non fu complicato, anzi. Gli proposi un appuntamento per il 3 aprile 2015 alle 4 del pomeriggio, a casa sua, e lui acconsentì subito, senza obiezioni. Mi avvertì però di una sua scarsa propensione a ricordarsi gli appuntamenti. Mi pregò, gentilmente, di chiamarlo tutti i giorni per ricordarglielo, a partire da una settimana prima.
Eseguii. Tutte le mattine, tardi su suo consiglio, verso mezzogiorno, gli telefonavo. Rispondeva sempre subito, divertendosi anche, in questo siparietto assieme a me… In occasione dell’ultima chiamata, 24 ore prima della data stabilita, mi chiese ancora l’orario, rassicurandomi: “Tanto sono sempre a casa”.
Arrivò il giorno. Il treno mi portò a Roma con rara puntualità. Avevo quindi un bel po’ di anticipo, quasi fantozziano, visto che Trenitalia mi aveva deluso al contrario. Appena uscito dalla stazione Termini, attorno a mezzogiorno, lo chiamai. Primo tentativo: nulla, nessuna risposta. Dopo dieci minuti, secondo tentativo. Nulla. Un vago sentimento di preoccupazione si fece strada. Riprovai dopo ulteriori venti minuti. Risposta! Era la moglie. Mi disse che non sapeva dove fosse suo marito, non ne aveva la più pallida idea, e che aveva lasciato a casa i telefoni (ne usava due). “Va, viene, non so mai cosa faccia, non mi dice mai niente!”. Le dissi dell’appuntamento, che venivo da Ferrara apposta per parlargli di lavoro. Laconicamente concluse: “Speriamo se ne ricordi. Arrivederci”. Accantonai il sentimento di premorte, presi una macchina a noleggio, programmai il navigatore e mi diressi verso casa sua. Il tragitto era abbastanza lungo da farmi perdere nel traffico della Capitale e dei miei pensieri… Ma ormai ero arrivato, erano già le 3 e volevo vedere come andava a finire. Riprovai col telefono. Al terzo squillo rispose un suo assistente, con accento decisamente non italiano: “Signore Villaggio non si sente bene. La chiama quando si sveglia”.
Abbandonai la macchina del car sharing al suo destino. Il morale scese alcuni gradini sotto al livello del mare e presi a passeggiare quasi sul posto, nei dintorni, non sapendo bene che fare. In uno slancio di lucidità mi dissi che comunque mi sarei dovuto segnare ogni cosa riguardante quest’impresa, magari per poter raccontare un giorno, ai nipoti come il loro nonno era finito in miseria poco prima dei cinquant’anni.
Mi sedetti su una panchina, meditando di darmi all’alcol… Ebbi l’illuminazione del mendicante: andare alla portineria. C’era una sbarra e un accesso controllato per le auto e i pedoni. Andai alla guardiola e provai a elemosinare almeno qualche informazione. Stirai il collo per far vedere bene la mia faccia, confidando che un po’ di popolarità televisiva sarebbe potuta tornarmi utile per evitare di essere scambiato per un semplice impiccione, e forse funzionò.
“Ha mica visto Villaggio per caso?”.
“È andato via un’ora fa, in taxi”.
Con la faccia di uno a cui sia morto un parente durante il proprio compleanno, aggiunsi: “Posso aspettarlo dentro?”.
“Certo, prego”, mi rispose il portinaio, col timido sorriso riservato alle prefiche.
Piegato ma non ancora spezzato, arrivai davanti alla sua palazzina, e mi misi ad attendere, speranzoso e preoccupato. Dopo un po’ un taxi arrivò. Era lui. Finalmente. Con un leggerissimo ritardo di quasi due ore. Scese con in mano una sportina di mozzarelle e latticini. Mi frapposi tra il taxi e casa sua, come un doganiere. Ero anche un po’ incazzato per essere stato preso leggermente per il culo, ma rimanevo abbarbicato al motivo del mio viaggio, facendo passare in cavalleria tutto il resto. Mi guardò, ma non collegò.
“Sono Fantoni!”.
“Buongiorno caro”. Cortese, nella sua indifferenza.
“Casualmente sono qua… avevamo appuntamento… ricordi?”.
Tanto per spazzare via l’ultimo briciolo di amor proprio, mi disse: “Ah, sei tu?… È molto che aspetti?”.
“Non tanto, dai: un paio d’ore…”. E qui, tutto il suo genio: mi rimprovera. Lui: “Ma mi hai detto che mi telefonavi!”.
Dopo una serie di rimpalli, in cui arrivò a dare la colpa all’assistente “che non aveva capito”, secondo lui, a chi dover dire la balla dell’indisposizione (forse a un fisioterapista, mi sembra), m’invitò finalmente a salire: “Andiamo”.