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 2023  ottobre 27 Venerdì calendario

Intervista a Pierfrancesco Favino


L’attore interpreta Todaro «Sono dimagrito 9 chili, per altri personaggi sono invece arrivato a ingrassare di 22: mi segue una biologa e faccio esami ormonali»

P ierfrancesco Favino, il suo nuovo film, Comandante, è già stato criticato sia da sinistra – «un eroe fascista» – sia da destra: perché l’eroe che salva i naufraghi viene visto come l’anti-Salvini.
«Ognuno è libero di trarre le proprie considerazioni. Il peggior nemico dell’attore è l’aggettivo. Anche il Papa l’ha detto: è una restrizione chiudere un uomo in una definizione. Quando nel film al comandante Todaro danno del fascista, lui risponde: io sono un uomo di mare. Un uomo contraddittorio: molto cattolico, ma attratto dall’esoterismo, dallo spiritismo».
In effetti il comandante Salvatore Todaro rifiuta senza motivo apparente l’imbarco sul suo sommergibile a un marinaio, che pochi giorni dopo si ammala di peritonite: se fosse partito, sarebbe morto.
«Todaro previde anche la propria, di morte: colpito dal nemico nel sonno. La sua vita fu segnata dal dolore: ebbe un grave incidente, il suo corpo era ingabbiato nel busto. Quando gli annunciano che la moglie aspetta un altro figlio, dice: “Sarà una femmina, si chiamerà Marina, ma io non la vedrò”».
Di Todaro sappiamo che per tre volte salvò i naufraghi della nave che aveva affondato in guerra. Lei però ha dovuto costruire un personaggio che non aveva mai visto, di cui non aveva mai sentito la voce.
«Ma ho potuto leggere le sue lettere. Era un uomo dignitoso e un po’ ritroso. Sua figlia mi ha scritto: “Non ho mai sentito la voce di mio padre; d’ora in poi sarà la tua”. Fosse solo questa l’utilità del nostro lavoro, ne valeva la pena».
Una voce dall’accento veneto.
«Todaro era nato a Messina, ma a sei anni aveva seguito a Chioggia il padre, anche lui marinaio. Ho vissuto con i sommergibilisti all’arsenale di Taranto. È una comunità unita dalla fratellanza, al di là delle bandiere».
Lei è stato poliziotto nel film Acab: la scena dello sfogo del celerino in tribunale è di culto.
«Sono due cose diverse però. I poliziotti hanno la rabbia di non essere compresi. I sommergibilisti hanno l’orgoglio di non essere compresi. Ed è come se fossi entrato nel loro mondo».
È stato nei sottomarini?
«Sì. Sono macchine dalla tecnologia avanzatissima, ma restano quelle pensate da Leonardo: la cosa più difficile è tenerle a galla. Ho provato la camera dei fumi, dove si impara ad affrontare le emergenze, con le maschere anti-gas e le bocchette cui attaccarsi per respirare».
L’accento veneto gliel’avevamo sentito ventun anni fa, in El Alamein, dov’era il sergente Rizzo. La scena di culto è lei che spara con la mitragliatrice contro i carri inglesi gridando disperato.
«Avevo ricevuto la notizia della morte di mio padre. Ero andato al suo capezzale per l’operazione di angioplastica, poi ero tornato sul set. Qualcosa non funzionò. Sono i momenti in cui ti senti inutile, in cui ti chiedi: cosa ci faccio qui? Eppure il mio maestro, Mario Ferrero, me l’aveva detto: questo è un mestiere in cui non ci sono feste comandate, e non ci sono lutti. Mi sono imposto di passare sempre il compleanno con le mie figlie, Greta e Lea. Con mia moglie Anna è più facile: compie gli anni il 24 dicembre».
Chi era suo padre?
«Aldo Favino era nato a Foggia, rimase orfano a undici anni e andò a studiare in seminario a Torino. Insegnava latino e greco, poi un fratellastro lo inserì nell’azienda di famiglia: legname. Mia mamma Stella ha 93 anni, anche lei pugliese, di Candela. Io però sono nato a Roma, unico maschio, con tre sorelle più grandi».
Qual è il suo primo ricordo pubblico?
«Il rapimento di Moro. La strage alla stazione di Bologna. E la morte di Alfredino Rampi. Era un ragazzino poco più piccolo di me. Rimasi tutta la notte davanti al televisore in bianco e nero, ricordo l’arrivo di Pertini».
Lei cosa vota?
«L’ultima volta, Emma Bonino. Fatico a riconoscermi in un partito».
Ha interpretato Craxi nel film di Amelio «Hammamet». Stefania e Bobo come l’hanno presa?
«Li ho conosciuti, in Tunisia ho girato a casa loro. Sono stati molto corretti, non si sono lamentati di nulla, neppure delle asperità: la scena in cui al congresso del Psi maltratta il compagno idealista, i litigi appunto con la figlia...».
Craxi era un omone che metteva quasi paura, la fisicità era un tratto importante della sua politica. Come è diventato Craxi?
«Mi sono fatto crescere le unghie, per pensare di avere mani più grandi. Portavo pantaloni leggeri e larghi, per dare l’idea di avere gambe più grosse, meno tornite. E poi sono ingrassato».
Di quanto?
«Tra i 7 e gli 11 chili. A fisarmonica: per le scene di Craxi giovane dovevo essere più magro che per quelle di Craxi in Tunisia. Non è solo questione di aspetto, ma di respiro, di movimenti, di battito cardiaco. Devi calarti nei panni di un altro, gli americani dicono nelle scarpe: una scarpa che non è la tua, ma lo diventa a forza di consumarla, logorarla, sformarla. Ho preso 11 chili anche per diventare Buscetta. Il record però è di 22, per recitare la parte di Mimmo, il malavitoso dal cuore buono di Senza nessuna pietà».
L’esperienza omosessuale
«Un uomo più grande mi corteggiava e io ho voluto togliermi ogni dubbio sulla mia sessualità
Tra noi non ci fu nulla di carnale»
Per Comandante invece è dimagrito.
«Ho perso progressivamente nove chili: a bordo del sommergibile, come si vede nel film, non c’era da mangiare, e Todaro sopperisce facendo recitare al cuoco napoletano la lista delle ricette...».
Com’è la dieta Favino?
«Non c’è. Per prendere e perdere peso mi faccio seguire da una biologa nutrizionista. Mi sottopongo a una serie di esami, anche ormonali, per capire come reagisce il mio fisico, quali alimenti mangiare e a quale ora del giorno».
Ci saranno regole che vanno bene anche per noi.
«Certo, dissociare carboidrati e proteine aiuta a smaltire i chili presi associandoli; sempre meglio cominciare il pasto con verdure crude, insalata, frutta; ma ognuno di noi deve scoprire cosa fa bene al suo organismo».
Lei è stato Gino Bartali, che era piccolo e forte, ma pure Giorgio Ambrosoli, che era lungo e sottile. Come ha fatto?
«Ho allungato la falcata e mi sono un po’ ingobbito, per simulare un’altezza che non ho. Ho cercato di riprodurre il gesto di Ambrosoli, grande fumatore, che si chinava in avanti con la sigaretta tra le mani, mentre Bartali si ingobbiva sulla bicicletta, così...» (Favino in pochi secondi diventa Ambrosoli e diventa Bartali).
Senta Favino, lei è un attore di impressionante bravura, come ormai tutti riconoscono. Cosa le è venuto in mente di infilarsi in una polemica con Adam Driver e le produzioni americane che usano attori americani per raccontare storie italiane, come quella di Ferrari?
«Si è voluto ridurre a una contesa tra attori un discorso di sistema. Io non ho ovviamente nulla contro Adam Driver, che è molto più bravo di me...».
Questo non è vero. Ma un film con Adam Driver si può vendere pure in Groenlandia e in Antartide, a differenza di un film con qualsiasi attore italiano.
«Mi ascolti. In America esiste da anni una cultura che viene chiamata woke. Nasce come forma di rispetto per le minoranze. Ma ora vale anche per il cinema. L’ultimo Oscar l’ha vinto un film asiatico, il penultimo un film con un protagonista sordomuto. Se si racconta una storia tedesca, si fa con attori tedeschi. Prenda “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, prodotto da Netflix: romanzo tedesco, attori tedeschi, girato in tedesco, vince il Bafta, il più importante premio cinematografico inglese. Intanto noi italiani stiamo gettando un’occasione».
Anche Visconti per il Gattopardo scelse Burt Lancaster.
«Ma non c’era la cultura woke. Il mio non è un discorso personale – tra l’altro sto girando due film all’estero, uno è “Il conte di Montecristo” —, né sindacale; è un discorso industriale. Lei sa che tra i primi dieci film più visti in Italia quest’anno non c’è un solo film italiano? Perché dobbiamo rinunciare a essere ambiziosi, a raccontare noi le nostre grandi storie? Ho una scuola di recitazione a Firenze, si chiama Oltrarno, come il quartiere dov’è nata. Ho visto molti talenti, ma non vorrei essere al loro posto. Vogliamo dare loro una prospettiva?».
È vero che lei ha avuto un’esperienza omosessuale?
«Non fu nulla di carnale. Un uomo più grande di me mi corteggiava, e io ho voluto togliermi un dubbio sulla mia sessualità, per non portarmelo dentro tutta la vita. L’ho sciolto, ho capito che omosessuale non lo ero. Era un tempo in cui se sentivi un’emozione per un uomo ti chiedevi cosa avevi di sbagliato; adesso per le nuove generazioni è tutto più semplice. Nello spettacolo l’omosessualità è sempre stata presente, io stesso ho lavorato con Ronconi e Ferrero, e anche la fluidità è sempre esistita».
Quali sono i suoi rivali e i suoi amici nel cinema?
«Sono amico da decenni di Giallini, Mastandrea, Accorsi e tanti altri, e nemico di nessuno».
Perché non fa più fiction tv?
«Perché mi sono reso conto che si stava prendendo in giro il pubblico; e il pubblico per noi è sacro. Le cose vanno fatte bene, non tirate via».
Per recitare Pinelli in «Romanzo di una strage» lei incontrò la vedova e le figlie.
«Andai a casa loro con Michela Cescon, la bravissima attrice che impersonava Licia Pinelli. Fu molto emozionante. Ora però preferisco non farlo più. Ogni interpretazione è comunque un tradimento. E non voglio entrare in qualcosa di troppo privato».
Chi è il suo modello di attore?
«Irraggiungibile: Gian Maria Volontè».
Alla fine del film, al comandante nemico che chiede perché l’ha salvato – aggiungendo che lui non l’avrebbe fatto —, Todaro risponde: «Perché siamo italiani». Cosa vuol dire?
«Todaro disse proprio così. Può voler dire molte cose. Io la interpreto nel senso che siamo un popolo aperto e accogliente, che mette la vita umana prima di tutto. Mentre i politici parlavano di blocco navale, i ristoratori di Lampedusa cucinavano per sfamare i profughi. Anche loro sono lo Stato italiano».