La Stampa, 27 ottobre 2023
I giochi di Erdogan
Recep Tayyip Erdoğan gioca su tanti tavoli. Fa scelte, dichiarazioni contraddittorie, a volte una all’opposto dell’altra. Apre alla Svezia nella Nato, esalta i miliziani di Hamas come “liberatori”. Minaccia di intervenire con le armi a Gaza, chiama il Papa “per fermare il massacro”. Ha imparato molti anni fa, per sopravvivere. Voleva essere Erdoğan e non Necmettin Erbakan. Il destino del suo predecessore, il suo mentore, lo ha segnato, lo ha sfiorato più volte, senza mai travolgerlo del tutto. In una Turchia kemalista, laica, autoritaria, la Repubblica che aveva proibito il velo nei luoghi pubblici, sostituito l’alfabeto arabo con quello latino, Erbakan aveva fatto rinascere l’islam politico. Un percorso accidentato, costellato di colpi di Stato militari, di partiti sciolti e fatti rinascere con altri nomi. Era riuscito a diventare primo ministro. Per appena un anno, prima di essere arrestato e messo da parte dai generali, nel 1997. Anche Erbakan mostrava un volto moderato. Ma poi le parole gli uscivano di bocca: “L’Europa è malata, la cureremo: diventerà islamica, conquisteremo Roma”. Un discorso dai toni jihadisti che poi sarà usato contro di lui, per disarcionarlo.
Erdoğan non vuole più essere disarcionato. Ha rischiato più volte, due in maniera seria. In quel fatidico 1997, sindaco popolarissimo di Istanbul, lanciato verso il potere nazionale con la volontà di sostituire Erbakan, fa il suo discorso programmatico e cita i versi dello scrittore Ziya Gokalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati”. Va a processo per violazione della natura laica della Costituzione. Ma Erdoğan non è Erbakan. Cita il Napoleone pronto a lanciarsi nella mischia con i suoi ussari: “La pallottola che deve uccidermi non è stata ancora forgiata”. Quasi vent’anni dopo le pallottole lo sfiorano sul serio. La notte del golpe del 15 luglio è nella sua residenza a Bursa, affacciata sul Mar di Marmara. Gli elicotteri dei golpisti stanno arrivando, per eliminarlo. Il consigliere di Putin, Patrushev, avvisa il capo dei Servizi turchi, Hakan Fidan. Erdoğan viene caricato sull’aereo presidenziale per fuggire verso Istanbul, ma in cielo ci sono gli F-16 dei ribelli. Per una ragione mai chiarita, il missile che deve abbatterlo non parte.
Dal 16 luglio 2016 il gioco è su più tavoli, finora soprattutto interno, investe il mondo. In patria Erdoğan ha promosso il suo programma islamico in dosi omeopatiche e mantenuto la facciata laica dello Stato fondato da Ataturk. All’estero ha continuato la rincorsa trentennale all’Unione europea e la fedeltà atlantica. Ora non più. Con Putin ha sfiorato lo scontro armato in Siria, è vero, ma gli serve per sfidare l’alleato americano che protegge la mente del golpe, l’imam Fetullah Gulen. È una giravolta da vertigini. Putin ha combattuto l’islam politico con tutta la sua brutalità. Prima nel Caucaso, poi in Mesopotamia. In Medio Oriente fa leva sull’asse sciita guidato dall’Iran. Il modello di Erdoğan è il sunnismo turco contaminato dall’ideologia della Fratellanza egiziana, l’opposto. Non importa. In fondo la Turchia ha un programma militare in comune con Israele, e intanto aiuta Hamas nella Striscia fino a inviare una “flottiglia di aiuti” per rompere il blocco, nel 2009. La deflagrazione del Levante arabo in seguito alle “primavere” gli offre opportunità succulente.
Erdoğan si prende pezzi di Siria e Libia, minaccia Cipro, scalza l’influenza secolare di potenze europee come Francia e Italia. E intanto si offre come garante delle frontiere dell’Unione europea, in cambio di miliardi per tenersi i rifugiati siriani, figli di una crisi che ha contribuito costruire. Un piede dentro, e uno fuori, come nella Nato. Non ci crede più di tanto all’ingresso nel club di Bruxelles. Il suo orizzonte è l’Asia centrale, dove ha coltivato i rapporti con il raiss dell’Azerbaigian fino a farne uno Stato cliente, la porta sul Mar Caspio. Denuncia il “doppio standard” degli europei, il razzismo mal celato verso gli altri continenti. La Turchia, nella sua visione deve praticare la regola islamica della taqiyyah, “prudenza e dissimulazione”, finché non sarà abbastanza forte da emanciparsi. La taqiyyah l’ha applicata lui stesso all’interno della Repubblica laica, per portare avanti la sua “cura islamica”, a tratti jihadista, senza esporsi più del dovuto. Ha avuto successo, ha purgato il sistema giudiziario, e gran parte delle forze armate. Ha davanti cinque anni per completare l’opera. Cavalcherà la causa palestinese, Gaza, la difesa della moschea di Al-Aqsa. Ma senza lanciare missili come fanno gli alleati dell’Iran. Senza esporsi, con lo stesso obiettivo.