la Repubblica, 27 ottobre 2023
Il fascino del giallo secondo Marcello Simoni
È difficile parlare di narrativa gialla senza cadere in qualche cliché. Già Conan Doyle, facendo proferire a Sherlock Holmes i suoi famosi sermoni deduttivi, ha ampiamente dimostrato che la risoluzione di un delitto, dalla prospettiva di chi costruisce una trama, altro non sia che la logica chiusura di un problema. Un genere di problema offerto, nello specifico, dal verificarsi di un omicidio o di un crimine di svariata natura – un furto, un rapimento, un’ingiusta condanna – a corredo del quale viene inserita una certa quantità di indizi. Autentiche briciole di Pollicino lasciate dall’assassino, dall’eversivo, dal mostro apolide, e senza le quali il detective di turno, Holmes compreso, farebbe la parte dell’idiota.
Il modo in cui questo genere letterario s’innesti al noir, ossia la questione di aggiungere al “Chi è stato?” il “Perché l’ha fatto?”, con tutte le declinazioni del caso che vanno dalla scuola di Jean-Patrick Manchette fino a Giorgio Scerbanenco, con l’utilizzo di acuti giochi d’introspezione, atmosfere cupe e disagi psico-sociali conditi da un umorismo ora nero ora mediterraneo, è storia scritta e codificata.
L’argomento che a mio avviso si tralascia spesso di dibattere, e che per certi versi rappresenta invece l’aspetto più intrigante di questo genere di architetture narrative, è per quale motivo, da Agatha Christie a oggi, le storie di delitto non abbiano mai smesso di annoiare. Perché, in altre parole, i lettori non si stanchino mai dei romanzi gialli.
La risposta, io credo, non va cercata in uno specifico dosaggio di ingredienti o in un esame intellettuale, quasi clinico e un po’ spocchioso, della condanna sociale che trapela da alcune di queste trame. La spiegazione è molto più elementare, il classico elefante nella stanza. La verità è che siamo semplicemente attratti dalla natura del delitto. Non per la sua efferatezza, per la sua scenicità o per il fatto che il suo compiersi spezzi le rassicuranti regole del vivere comune. Ma, come già subodoriamo nei Delitti della Rue Morgue di Poe, per la sua dimensione assoluta.
In un mondo in cui tutto è caduco e transitorio, il delitto rappresenta, in altre parole, l’unica cosa permanente. «La sola certezza è la morte!», verrebbe quasi da citare Kierkegaard. E che ci piaccia oppure no, si tratta della pura verità. Se dobbiamo rassegnarci a veder tramontare civiltà, religioni, correnti culturali e persino l’amore, la morte possiede una dimensione eterna. Ed eterno, in egual misura, è l’atto dell’omicidio, perché una volta commesso non può più essere cancellato.
Si pensi a Caino e Abele. Il legame tra carnefice e vittima definisce questi due fratelli unendoli per sempre, più di quanto qualsiasi storia romantica abbia mai fatto con due innamorati. Come, in diverso modo, accade per Romeo e Giulietta. Non è l’amore, infatti, il vincolo indissolubile destinato a legarli per sempre, bensì la morte, evocata dalla penna di Shakespeare a loro imperituro suggello.
Ma torniamo a Caino, l’omicida per antonomasia. Se il suo terribile gesto rimane scolpito nella memoria biblica dell’Historia salutis, lui stesso è destinato all’immortalità. E, per dirla tutta, a rimanere impunito. Dio stesso se ne premura, apponendo su di lui un segno. Non per maledirlo, ma per difenderlo. «Chiunque ucciderà Caino», proferisce il Creatore nel libro della Genesi, «subirà la vendetta sette volte».
Un messaggio, questo, che possiamo leggere tra le righe nell’ultima pagina di ogni romanzo giallo. Perché per quanto i fautori del cosiddetto finale consolatorio usino sostenere che, al termine di una trama nera, la cattura dell’assassino allude al ristabilito ordine sociale, non è vero un accidente. Nel corso di una classica trama gialla delle persone vengono brutalmente uccise e nulla al mondo, nemmeno la scoperta della verità, potrà riportarle in vita. Anzi, proprio la verità, spesso, ci si parerà dinanzi con tutto l’orrore della Maschera Rossa di Poe. Un orrore impossibile da annientare, similmente alle ingiustizie che brulicano nella Gotham City di Batman, a dimostrazione di quanto il dualismo manicheo del bene e del male sia una puerile illusione.
«Nessuno uccida Caino!» tuona perciò Dio. Anche se a ben vedere, lo fa in difesa dell’intero genere umano. Perché, in fin dei conti, Caino sopravvive dentro ognuno di noi. Giacché noi tutti siamo, biblicamente, il suo retaggio genetico. Compresi gli eroi all’apparenza più puri e virtuosi. I re Artù, gli Orlando, gli Ivanhoe, gli Hercule Poirot. Tutti recano traccia del suo marchio. Lo prova il fatto che un’indagine diverrebbe un’operazione impossibile se il detective – reale o immaginario – non provasse una naturale attrazione per il crimine.
Da qui nasce il parallelo Holmes-Lupin, o Vidocq-Rocambole, attraverso il quale potremmo teorizzare l’esistenza di una zona grigia nella quale far rientrare una serie di caratteristiche attribuibili sia agli eroi dell’indagine che ai criminali. L’astuzia, l’ingegno, la diffidenza, il fascino, l’abilità nell’uso delle armi e persino il gusto per il travestimento. Gli “strumenti del mestiere” condivisi da entrambi gli schieramenti, predatori e prede, per confrontarsi alla pari.
Ed è proprio perché in cuor nostro abbiamo accolto questo principio di non assoluta contraddizione tra eroi e criminali che non proviamo smarrimento di fronte a uno dei più potenti giochi di prestigio del giallo, cioè il ribaltamento della realtà. Mi riferisco ai capitoli delle ultime pagine, quelli in cui cadono le maschere e la realtà viene finalmente svelata per quel che è e non per quel che sembrava. Per un attimo, durante la lettura di queste righe, diventiamo Giona condannato a sprofondare nell’abisso dentro la pancia del Leviatano. E il mare, del quale in principio conoscevamo soltanto la superficie, ora ci offre il suo lato nascosto, la sua oscurità tenebrosa e inquietante. Le colonne dell’inganno sopra le quali poggiava la nostra illusione.
Quello è il momento più amato dal lettore di gialli. Il momento tremendo e sublime in cui ci è concesso sbirciare sotto il placido specchio dell’acqua. Il momento in cui, come Giona, sentiamo per un istante la voce di Dio.