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 2023  ottobre 26 Giovedì calendario

Intervista a Ferran Adrià

A Ferran Adrià, uno dei cuochi più grandi del mondo, cucinare non è mai davvero piaciuto. «A El Bulli avevo tre chef di cucina, come tutti. La verità è che uno chef pensa alla parte teorica, a quella creativa, all’organizzazione. Cucinare non mi entusiasma, ma adoro mangiare: con mia moglie proviamo 250 ristoranti all’anno, e in fondo quando mangi stai cucinando, con la testa». Il risultato è che si può dire che nessuno conosca il passato e il presente della gastronomia internazionale bene come lui, che non a caso, dopo il faraonico progetto enciclopedico di Bullipedia, sta lavorando sul concetto di creatività nella gastronomia, teorizzando quello che ancora nessuno ha messo nero su bianco. Adrià, che da oltre vent’anni collabora con Lavazza, lo racconta per la prima a Torino, durante l’evento di apertura di Buonissima, kermesse gastronomica di cui Lavazza è main sponsor, in un talk con Renè Redzepi, capostipite della cucina nordica.
Ferran Adrià, dove va la cucina mondiale?
Oggi ci sono quattro Paesi nel mondo che stanno facendo la differenza: Francia, Italia, Giappone e Spagna. C’è poi il fenomeno Danimarca, con i suoi quattro o cinque ristoranti incredibili, ma ci vorranno ancora molti anni prima che questo si traduca in qualcosa di diffuso. Il tema però non è dove, ma come. In Spagna abbiamo 70mila ristoranti, in Italia qualcuno in più: nel mondo sono milioni. Quanti di questi fanno davvero la differenza a livello creativo? Cinque? Il mio lavoro ora è capire perché e come sono arrivati al massimo livello. Stiamo parlando della Formula Uno della cucina, e nessuno sa ancora come funzioni.
La Spagna sembra essere ancora una volta, dopo El Bulli, il punto di riferimento gastronomico del mondo, non le sembra?
La Spagna è piena di piccole città in cui si trasferiscono giovani chef che iniziano a fare una cucina creativa. Si può dire che ora si sta raccogliendo l’eredità che abbiamo lasciato, perché quello che sta succedendo è un’evoluzione di quello che è stato negli anni Novanta: ci vogliono venti, venticinque anni perché un Paese arrivi alla sua maturità gastronomica.
A che punto è il progetto di El Bulli?
Quest’estate abbiamo inaugurato il museo, e a maggio lo riapriremo per andare avanti fino a ottobre. Siamo felicissimi: chi lo ha visitato si è emozionato e ha avuto la possibilità di comprendere meglio un luogo dove la produzione creativa è stata fuori dal comune. Molta gente ne ha sentito parlare ma non sa esattamente cosa sia successo lì.
Cosa è successo?
Che siamo stati i primi a teorizzare la creatività e l’innovazione nella gastronomia, ma siamo stati così stupidi da non dare un nome a tutto questo. Tutti chiamavano la cucina di El Bulli “molecolare”, ma la verità è che è un termine che non significa nulla. Il gastronomo Pau Arenos la definì tecnoemozionale, ma chissà perché nessuno ha mai adottato questa definizione. Noi, con la cucina tecnoemozionale, abbiamo davvero cambiato la cucina internazionale: la lezione più importante che abbiamo introdotto sono i menu degustazione lunghi, con gli amuse bouche e gli avant dessert. Oggi li mangi in tutto il mondo, ma fino al ’96-’97 nessuno proponeva più di cinque, massimo sette portate. Innovazioni concettuali, ma anche pratiche, come l’introduzione del biberon per le salse o dell’estrattore per i fondi.
E adesso, dopo tutto questo innovare?
Me lo sono chiesto anche io. Non è stato facile trovare una sfida: in tutti questi anni abbiamo lavorato a Bullipedia, un progetto enorme fatto di cose che quando avevo aperto El Bulli ancora non comprendevo. Ora quello che posso fare è migliorare da un punto di vista teorico il sistema creativo che abbiamo costruito, per poi condividerlo con le nuove generazioni. Quando ho iniziato il lavoro a El Bulli ho trovato diversi buchi da riempire. La domanda che mi faccio oggi è: quali buchi ci sono ancora? Da diversi mesi, ormai, dedico otto ore al giorno a trovare la risposta.
In che modo la cerca, questa risposta?
Leggendo e analizzando quello che sono oggi la creatività e la ristorazione gastronomica. Studiando quei luoghi che sono arrivati ai livelli più alti, perché non c’è nessuno che lo sta facendo: c’è troppo poco tempo, esperienza e metodo. Parliamo di René Redzepi, ad esempio: nessuno fino a ora ha davvero analizzato i suoi libri a livello creativo. Io l’ho fatto, ed è stato subito molto più chiara la grande rivoluzione che ha fatto.
Quale sarà l’applicazione di questo lavoro?
Un nuovo corso all’università di Madrid, per cominciare. E poi chissà. Le università gastronomiche hanno un grande futuro: tra una decina d’anni ne avremo centinaia nel mondo, e da lì usciranno quelli che faranno questo lavoro nei prossimi anni. Noi dobbiamo dar loro gli strumenti su cui studiare, il sapere da trasmettere: è esattamente a questo che sto lavorando.