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 2023  ottobre 26 Giovedì calendario

Intervista a Jamaica Kincaid

Jamaica Kincaid una volta ha scritto che quando aveva vent’anni, a New York, spendeva il suo poco denaro per comprare abiti nei negozi dell’usato, abiti che le stavano benissimo perché, non potendo permettersi di mangiare, era molto magra. Erano abiti un tempo costosi, appartenuti a persone ricche ormai morte, e la mattina lei impiegava ore per vestirsi, incerta su quale di quei fantasmi incarnare per uscire di casa.
Ho pensato spesso a quelle righe di Biografia di un vestito (è un racconto del 1992, in Italia è l’ultimo suo titolo tradotto per Adelphi da Franca Cavagnoli). Le ho interpretate come una sintesi della scrittura magica e metamorfica di questa scrittrice capace di trasformare la miseria in bellezza variando molti timbri di una voce unica. Una voce che, nata in un passato di violenza ed equilibri archetipici, ne conserva e trasforma le scorie per definire il presente. Jamaica Kincaid ha messo a nudo le verità dei legami familiari, delle relazioni economiche, degli assesti nelle famiglie, e allo stesso tempo ha smascherato le posture politiche dei finti progressismi, ha raccontato i dominati e i dominatori ignorando la mistica un po’ logora del riscatto o della denuncia. Le sue pagine sono simili a certi sogni che restano addosso per tutto il giorno, alle apparizioni o allucinazioni che consideriamo reali anche quando non siamo sicuri che siano accadute davvero. Questa scrittrice viscerale e onirica ha più volte sfiorato un Nobel che, se arrivasse, sarebbe meritatissimo; è nata ad Antigua nel 1949, si è trasferita a sedici anni a New York facendo la ragazza alla pari, ha lavorato nella redazione di Forbes, e oggi insegna ad Harvard e vive nel Vermont. Non si è sempre chiamata Jamaica Kincaid, e questa è la prima cosa che decido di chiederle quando la incontro, un attimo dopo essere rimasta abbagliata dal suo sguardo solare e profondo.
Nel 1973 lei ha deciso di usare uno pseudonimo per i suoi primi articoli, poi ha continuato a firmarsi così.
«Volevo scrivere ed ero sicura che avrei fallito, ma non volevo deludere i miei genitori, soprattutto mia madre che aveva sempre un atteggiamento giudicante o sarcastico rispetto a quello che facevo. Decisi allora di nascondermi dietro un nome e cognome che mi piacevano, sia per il suono sia per l’effetto sulla pagina. E poi c’era un rimando geografico ai Caraibi, che per me era importante. Dissi ai miei amici: da oggi in poi chiamatemi così. Da allora sono rimasta Jamaica Kincaid per tutti, anche se all’epoca non avevo chiara l’importanza della questione dei nomi. Solo dopo ho capito che dare il nome alle cose ti consente di cambiare il tuo rapporto con loro attraverso il possesso. Quando ho cambiato nome, stavo cercando di prendere possesso di me stessa».
Impadronirsi di sé e ricordare: il potere e la memoria in che relazione stanno?
«Pensiamo alla Bibbia e ai diari di Cristoforo Colombo. Quando Dio esorta Adamo a dare i nomi alle cose del mondo, non è detto che poi gli piaceranno i nomi che sceglierà, ma è un potente gesto simbolico di condivisione del potere. Lui sa già come si chiamano le cose. Cristoforo Colombo, che quando sbarca è confuso perché non capisce bene dov’è, comincia subito ad attribuire nomi conosciuti a luoghi e persone nuove, per capirli, per farli suoi. Antigua, per esempio, era il nome di una chiesa di Siviglia».
Nominare significa anche scegliere una lingua. La sua è una lingua che cambia, procede per illuminazioni che scavano e guidano, come se in quelle forme di consapevole magia ci fosse un tentativo costante di sopravvivenza.
«Ho cominciato a scrivere in un inglese approssimativo, quello che di solito viene chiamato broken english, una variante incerta e mal strutturata della lingua. È la lingua rotta che si parla nel posto da cui vengo, è la mia lingua, ed è l’aspetto della mia scrittura che ancora oggi risulta più ostico ai miei lettori americani. Da bambini sapevamo che se volevamo fare bella figura non dovevamo parlare così, e io mi sono abituata presto a tradurre i miei pensieri in una lingua migliore. È stato come vivere in una dimensione di traduzione perenne, cercavo di trasformare il mio broken english in parole utili per farmi capire. Ancora oggi scrivo libri brevi perché impiego tantissimo tempo a trovare l’equilibrio perfetto, posso metterci anche una settimana per una frase».
Per diversi suoi temi, in particolare un certo modo di restituire la grande Storia, lei è stata spesso associata a un’altra importante scrittrice caraibica, Jean Rhys.
«Ammiro moltissimo Jean Rhys. Io ho un rapporto controverso con la Storia, con i fatti, non mi accontento dei semplici segmenti di tempo. Per esempio, mi ero messa in testa di studiare la nascita del mondo, e a un certo punto ho letto che la nostra terra è nata dopo che aveva piovuto per cento milioni di anni. Ma cosa vuol dire cento milioni di anni? Dobbiamo intenderla in senso letterale? Dentro queste questioni posso perdermi, passarci tantissimo tempo».
La sua voce si muove tra due insiemi che emergono come pluralità: i popoli e le famiglie. Corali, quasi compatti i primi, disgregate e disgreganti le seconde.
«Derek Walcott ha detto che le mie frasi contengono sempre anche il loro contrario. Penso sia vero, abito le contraddizioni, ogni volta che dico qualcosa penso anche al suo opposto, e il modo in cui sto nei miei libri non è quello dello storytelling, degli avvenimenti episodici. Non sono interessata alla forma romanzo, mette dei confini, ingabbia le parole. È un romanzo? È un racconto? Che importa. Dicono che la mia voce è arrabbiata, ma non capisco: non c’è nulla di più lontano da me della rabbia. La rabbia non mi interessa, a me interessa raccontare la verità».
La verità può essere violenta.
«È che agli scrittori, oggi, non importa più mettere sassolini taglienti nelle scarpe dei lettori. Forse viene detto loro che devono assecondarli, accarezzarli. Invece io continuo a pensare, ostinatamente, che dare fastidio sia tutto ciò che la letteratura deve fare».
I libri e gli incontri – I libri di Jamaica Kincaid sono editi da Adelphi: qui accanto Autobiografia di mia madre (trad. D. Mezzacapa, pagg. 186, euro 12). Incontri con l’autrice oggi alla Triennale di Milano (18,30), il 30 alle 17,30 alla Salaborsa di Bologna, con Nadia Terranova, nell’ambito di “Archivio aperto”