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 2023  ottobre 25 Mercoledì calendario

Il cattivo gusto

Da svariati decenni chi traffica con cose e fatti dell’arte non può non essere rimasto profondamente avvinto dalle lucide anticipatorie visioni di Gillo Dorfles che, in luce di cultura e spregiudicatezza, ha messo bene in chiaro come a proposito del cattivo gusto che imperversa (e trionfa potenziato) tra arte e non-arte, l’abbraccio sia oggi tanto stretto e inestricabile da creare imbarazzo e difficoltà di giudizio.Conviene dire di come Dorfles abbia per un periodo infinito colmato presenza e studi del più raffinato atteggiamento eclettico, che ha spaziato dalla Psichiatria all’Estetica, dalla Pittura alla Musica, dalla Filosofia ai Manifesti, dando solidità e senso alla figura di un personaggio irripetibile, severo e caustico tanto profondo quanto insostituibile.Questa nuova edizione del Kitsch come Antologia del cattivo gusto è la riedizione del volume dato alle stampe dall’editore Gabriele Mazzotta nel 1968 con una nuova premessa del curatore e qualche minima variazione iconografica dettata dai cambiamenti nei riferimenti della cultura di massa.Parla chiaro Dorfles nell’introduzione del volume, prezioso anche per la vasta documentazione iconografica, e dice di come – in fondo – egli non si proponga altro che stilare una sorta di catalogo ragionato del cattivo gusto imperante, redigendo una storia sincronica e solo parzialmente diacronica.È un visionario tentativo di realizzare la «sistemazione d’una materia così delicata e sfumata che però scotta tra le mani e lascia cicatrici estetiche indelebili».L’indice del volume è inequivocabile. Si scava nel vasto territorio del mondano chiedendo aiuto a studiosi come John McHale a Karl Pawek o Ludwig Giesz e poi Lotte Eisner, Ugo Volli, Vittorio Gregotti, Aleksa ?elebonovi?. Fondamentali sono i saggi di Hermann Broch e di Clement Greenberg.Dorfles mette in luce come il kitsch possa essere considerato «il pasto estetico della borghesia trionfante» tendendo a limitare la cruda analisi al campo dell’estetica, al côté artistico insomma, per ampliare poi la visione ed estenderla alla vita sociale, alla società intera, alla creatività tutta, scorgendo con raccapriccio la smorfia del kitsch proiettata su buona parte del nostro agire, riuscendo ad informare gusti e sentimenti per piegarli al vasto tema del banale che indomito imperversa ovunque.Questo curioso termine di origine tedesca vive soltanto di ipotesi etimologiche come “schizzo mal fatto, figura incompiuta, copia raffazzonata” o merce in vendita. Sono ipotesi che presto traboccano in universi affini come “arte degenerata, massificata, inautentica, ripetitiva” e, naturalmente pseudo-arte a buon mercato, simulazione della bellezza, esaltazione del dilettantismo. Di certo Dorfles, come il filosofo Andrea Mecacci, pensava tra l’altro a qualcosa come un orsetto di peluche che regge un cuore rosso, una pop-star che in un concerto parla di fame nel mondo o a Miss America in lacrime che augura al mondo la pace. Non può mancare Elton John che canta Candle in the wind ai funerali di Lady Diana o i cuscini gonfiabili al giftshop del Metropolitan Museum con l’autoritratto di Van Gogh e così via senza fine e speranza. Schegge della falsità di cui si permea la nostra società che, spingendo l’analisi ad orizzonti più vasti e radicali, ci costringe a chiederci se convenga gettare le armi e arrenderci senza smobilismi al trionfo planetario e senza limiti della cultura Middlebrow se non proprio Lowbrow.Naturalmente le definizioni son fatte di strettoie, per questo Hermann Broch definito «il più acerrimo nemico del Kitsh» scriveva: «Non aspettatevi definizioni rigorose e nette. Filosofare è sempre un giocare di prestigio con le nuvole e la filosofia estetica non sfugge a questa regola».Per Broch l’orrore della pseudo-arte si scontra con la forza e la sincerità delle ricerche d’avanguardia allontanandosi dall’idea che il kitsch stia soltanto nell’ambito del cattivo gusto e si spinge poi a considerare che si è di fronte ad un autentico sistema di disvalori per dichiarare che «in arte il male è rappresentato dal kitsch». Banalità del gusto e banalità del male, poiché per Broch (come per Dorlfes) il kitsch non ha da fare solo con l’estetica ma con «determinati comportamenti della vita». Dal valore freddo degli oggetti a quello vivo degli esseri umani. Toccherà a Jean Baudrillard definire il Kitsch uno pseudo-oggetto, una simulazione, uno stereotipo che porterà all’iperrealtà, come nuova versione della realtà, allucinante somiglianza del reale con sé stesso, un simulacro.Dorfles accoglie nel suo volume il lucido saggio del 1939 di Clement Greenberg in cui l’autore si rende conto della difficoltà di produrre arte alta per un pubblico vasto e non necessariamente acculturato e si stupisce – ad esempio – che la stessa epoca possa produrre la poesia di Eliot e le canzoni di Tin Pan Alley, musica di livello low e se lo spiega con l’idea che la dominante classe borghese inurbata, non trovando con facilità una propria cultura, si rifugi nel kitsch che sovente è persino un’arma perfetta di persuasione manifesta dei regimi dittatoriali.L’idea di Greenberg e di Dorfles per cui una rigorosa cultura dell’avanguardia estetica sia in grado di screditare e annullare la presenza volgare e generalizzata del kitsch si è presto dissolta di fronte alla rapida evoluzione proposta dalla conduzione dei sistemi creativi, dall’Artworld alla Politica, dal Turismo alla Natura, dalla Pubblicità al Cinema, dallo Styling all’Architettura.Quanto il volume di Dorfles pone in evidenza con l’ausilio di un’iconografia ricca e potente, nutrita di testi critici mirati, appare oggi come un’ineluttabile previsione all’invasione di stilemi kitsch dal volto bonario per la dozzinale ed inconsistente felicità che travolge verticalmente tutti gli strati sociali intenti a gustare il banale scambiandolo per un’amichevole sorridente smorfietta di felicità. —