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 2023  ottobre 25 Mercoledì calendario

Intervista a Emilio Isgrò

Lucio Fontana taglia, Alberto Burri brucia, Mimmo Rotella strappa e lei, Emilio Isgrò, cancella .
«Li ho conosciuti bene tutti, tranne l’ultimo: me stesso. Il mio migliore amico scelse di fare lo psicanalista per capirmi; non ci è riuscito neppure lui».
Fontana com’era?
«Dolce, gentile. Voleva piacere. Veniva alle mostre dei giovani e comprava sempre qualche opera: “Isgrò, noi dobbiamo essere concettuali!” diceva».
Burri?
«Burri non parlava quasi mai. E di piacere non gli importava nulla».
Rotella?
«Sempre in competizione con i colleghi. Un nostro collezionista, Guido Peruz, pittore lui stesso, ci invitò al suo compleanno e affidò a me il discorso: l’invidia di Mimmo si sentiva nell’aria, per placarlo dovettero fargli recitare una delle sue poesie epistaltiche, fatte di suoni».
Qual è il suo primo ricordo?
«Ho diciotto mesi, sono in braccio a mia madre Elisa, e viene il carro dei poveri a portare via la vicina di casa».
Com’era il carro dei poveri?
«Bianco. Quello dei ricchi era di legno nero».
Un ricordo di morte.
«In Sicilia morte e vita sono intrecciate. I napoletani ridono della morte; noi ci conviviamo. Loro hanno avuto la commedia, noi la tragedia; loro Eduardo e Peppino De Filippo, noi Pirandello».
Di Pirandello lei ha conosciuto le pronipoti, vero?
«Sono cresciuto a casa di Mimma e Rosanna Pirandello, che mi passarono i primi libri. Era una famiglia di destra, ma in casa dopo la guerra avevano le opere di Antonio Gramsci».
A Barcellona Pozzo di Gotto, il paese di Emilio Fede.
«Suo padre era il capo dei vigili. Il figlio lo ritrovai a Milano».
Della guerra che ricordo ha?
«Per proteggerci dai bombardamenti ci nascondevamo sotto i tavoli da lavoro di mio padre».
Cosa faceva suo padre?
«L’ebanista. Era stato a Losanna a cercare fortuna, e siccome suonava il sassofono e il clarinetto lo presero nell’orchestra del Knie, il circo svizzero. Compose un valzer tirolese, lui che era nato sui monti Peloritani, per il quale ricevo ancora i diritti d’autore».
Poi in Sicilia sbarcarono gli americani.
«Andammo in una vallata per ripararci dalle cannonate, che arrivavano dal mare e passavano sopra le nostre teste. L’unico a non avere paura fu nonno Emilio: era sordo di guerra, aveva perso l’udito per una granata sul Piave; guardava il tracciato dei razzi come se fossero fuochi d’artificio».
Com’era la Sicilia del dopoguerra?
«Molto povera, ma senza sapere di esserlo. Non fuggii dalla miseria: ero un immigrato intellettuale. Arrivai a Milano nel 1956, a diciotto anni, e mi iscrissi alla Cattolica. Ricordo il fondatore, padre Agostino Gemelli, in sedia a rotelle, con il saio da francescano».
Come si trovò a Milano?
«Benissimo. Affittavo una stanza a casa di una signora sorda, come mio nonno: davo feste e lei non se ne accorgeva. Il mio compagno Raffaele Crovi mi fece pubblicare da Schwarz la prima raccolta di poesie e mi portò a casa di Vittorini, dove incontrai Montale e Calvino».
Montale com’era?
«Ghiotto come un monello, per la disperazione della Mosca, la moglie. Da Vittorini veniva a mangiare lo stoccafisso, che da ligure apprezzava moltissimo. A Venezia lo accompagnavo a passeggiare: Montale adorava Venezia sotto la pioggia, e si appoggiava al mio braccio per non scivolare sui gradini dei ponti. Mi parlava male di Ungaretti e Quasimodo, che peraltro ricambiavano parlando male di lui».
E Calvino?
«Non era simpatico. Un ligure-piemontese che aveva preso gli aspetti più aspri di entrambe le nature. Grande scrittore, però».
Come mai lei era a Venezia?
«Fui assunto al Gazzettino. Primo servizio, il processo al mostro di Pontoglio, Vitalino Morandini».
Uno dei serial-killer italiani.
«Uccideva le persone, almeno sette, e si metteva a dormire nella stanza a fianco. Era chiaramente un folle. Il difensore d’ufficio si appellò alla clemenza della corte: gli diedero l’ergastolo solo perché la pena di morte era stata abolita. Coimputato era un ex militare bergamasco, detto Soldatòn, che parlava solo dialetto. Era innocente: non aveva ucciso nessuno. In compenso rubava i maiali».
I maiali?
«Settecento maiali. Se li era caricati in spalle uno a uno. Con gli altri inviati, Guido Nozzoli e Alfonso Madeo, impazzivamo a tradurre il suo racconto dal bergamasco. “Come mai i maiali non hanno urlato?” chiese il giudice. Soldatòn aveva riempito loro la bocca di sapone: anziché grida, uscivano bolle. Il racconto piacque, le vendite del Gazzettino aumentarono. Così mi assunsero».
A Venezia lei si sposò.
«Nella chiesa di San Zaccaria, con Brigitte Kopp, la figlia di Wilhelm, un esploratore tedesco che era stato al Polo Nord con Alfred Wegener, quello della deriva dei continenti, e dopo la drammatica morte di Wegener aveva guidato il ritorno dei superstiti. Mio suocero era un uomo affascinante, ma noi avevamo vent’anni, e il matrimonio non durò».
In quella Venezia c’era Ezra Pound.
«Andavo a pranzo alla locanda Montini con lui e sua moglie Olga Rudge. Peggio di Burri: non diceva mai un parola. Una volta per sfinimento riuscii a strappargli un mormorio: “Nella mia vita ho sbagliato tutto”».
E Peggy Guggenheim?
«Mi invitò nel suo palazzo, la trovai che sfogliava un dizionario italiano-inglese: si stava preparando all’intervista. Indossava pantofole ricavate da zampe di leone, mi offrì una vodka, si lamentò: “A Venezia i miei artisti non li capisce nessuno”».
Viaggi?
«Con Vittorini e altri andai alle Baleari, per il Premio degli Editori. Scalo a Barcellona, controllo della polizia franchista, Maria Livia Serini dell’Espresso mi passa un pacco: “Me lo porti tu?”. Lo prendo, lo apro: dietro la copertina di un libro di Pavese c’era un’intera tiratura de “La guerra de guerrillas” di Che Guevara. Solo la negligenza dei poliziotti mi salvò dalle carceri del Caudillo».
È vero che conobbe John Kennedy?
«Nel 1963 lo seguii con giornalisti di tutto il mondo in un giro elettorale per l’America profonda: South Dakota, New Mexico, Texas... Ci ricevette alla Casa Bianca: “Tu sei l’italiano, vero?”. Come l’ha capito, presidente? “Dalla cravatta”. All’uscita incrociai Ferdinando Marcos, il dittatore filippino, con la moglie Imelda».
Poi lei tornò a Milano, e arrivò il Sessantotto. Che ricordo ne ha?
«I figli cadetti della borghesia si rivoltarono contro i padri. Fu utile al cambiamento dei costumi, e deleterio per l’arte».
Perché?
«Illuse che chiunque potesse fare l’artista. Ma l’immaginazione non può andare al potere; deve essere un contro-potere. L’arte, come la scienza, non è né di destra né di sinistra; è semplicemente arte, come la scienza è semplicemente scienza. Le bandiere rosse impoverirono l’arte; così come i quadri propagandistici sono i peggiori di Guttuso, che per il resto era un grande pittore».
Come ricorda Guttuso?
«Mise in scena il proprio declino, con il maggiordomo che offriva champagne agli ospiti, lui ormai molto anziano che dipingeva in pubblico, e la moglie Mimì che gli reggeva la mano».
E Giorgio De Chirico?
«Divertente. Gli piaceva giocare, anche con le proprie opere. Magari non amava il tratto un po’ grossolano di un suo quadro giovanile e lo segnalava come un falso, e invece riconosceva un falso come autentico».
Palma Bucarelli?
«Bellissima e distaccata. Occhi di ghiaccio».
Piero Manzoni?
«Veniva da una famiglia importante, e se ne vergognava. Gli pesava anche l’omonimia con l’autore dei Promessi Sposi. Piero era timido, e per nasconderlo faceva il clown. Stava con Nanda Vigo, grande artista e agitatrice culturale, con cui litigava ferocemente, si inseguivano per la casa brandendo le forbici».
Le «Forbici» di Manzoni nascono da lì?
«Secondo me sì. In casa c’era un terribile odore di selvatico, perché Nanda teneva una volpe da compagnia. L’infelice animale si suicidò infilando la testa nella ringhiera del balcone».
Emilio Vedova?
«Sempre a far casino. Quando alla Fenice disegnò le scene di “Intolleranza”, musiche di Luigi Nono, gli spettatori esasperati lo bersagliarono di ortaggi, che lui accolse con un sorriso».

È vero che lei ha inventato il tratto distintivo della sua arte, la cancellatura, passando in tipografia un articolo di Comisso, e notando che i brani cancellati erano i migliori?
«Non è vero. Lo raccontavo per fare un po’ l’ufficio stampa di me stesso. Annunciai la morte della parola: Montale lo prese come un affronto personale, e si offese. In realtà cancellare la parola è un modo per renderla più potente. La cancellatura non distrugge; rivela, esalta. È un grido muto contro la morte. Ho anche temuto che potesse distruggere me».
Come si è salvato?
«Mi inventai che la mia arte fosse una forma di devozione alla Madonna. Ci credettero».
Alcune sue opere si intitolano «Dichiaro di non essere Emilio Isgrò».
«Mi sono ispirato a Ulisse, all’astuzia con cui inganna Polifemo. “Qual è il tuo nome?”. “Nessuno!”».
Lei fece pure causa per plagio a Roger Waters dei Pink Floyd.
«E la vinsi. Aveva una cancellatura sulla copertina del disco. Il giudice ne bloccò la vendita».
Dal 1981 sta con sua moglie, Scilla.
«Era la prima donna che mi piacesse davvero in vita mia. Mi sentivo ansioso, e per non scaricarle addosso la mia ansia la evitavo. Fu lei a insistere per andare a prendere un caffè. Siamo ancora insieme».
La Meloni come la trova?
«Non sono un nazionalista, sono per un’Europa sempre più integrata. Ma vedo in lei un’energia, una forza».
La Schlein come la trova?
«Non la trovo. Non mi pare sincera, neppure quando dice cose giuste. Spero diventi più vera».
Com’è la Milano di oggi?
«Sempre viva. Anche se quest’anno sulla metro mi hanno borseggiato quattro volte...».
Quattro?
«Tre volte mi hanno rubato il portafoglio. La quarta volta avevo appena finito di rimproverare una signora che augurava la morte a tutti gli immigrati, quando uno di loro mi è sgattaiolato al fianco; ho cercato il telefonino in tasca, e non c’era più».
Oggi chi sono i grandi dell’arte? Pistoletto?
«È un generoso, uno che si dà, che non si risparmia».
Mimmo Paladino?

«Bravissimo pittore».
Maurizio Cattelan?
«Non può uscire da se stesso. È condannato a fare Cattelan; e per un artista è un bel problema».
A chi lascerà le sue opere?
«Ai milanesi. Non ho figli, e sto creando una Fondazione affinché questa mia casa diventi un museo».