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 2023  ottobre 24 Martedì calendario

Cervelli che scappano e altri che restano

L’Italia è un paese che invecchia, con una quota di laureati sulla popolazione inferiore a quella degli altri paesi europei e che, nonostante ciò, poco valorizza i suoi giovani. I quali, sempre più spesso, si sentono costretti a emigrare per realizzare le loro giuste ambizioni. Un fenomeno diffuso e documentato ormai da tempo, spesso etichettato come “fuga dei cervelli”, e a conoscenza tanto del grande pubblico quanto della politica. Proprio a questi nostri concittadini, dal 2010 in poi, sono stati dedicati incentivi specifici per il rientro. Un quadro incerto, a dire il vero, in continua evoluzione, e che ha avuto come contenuto fondamentale il riconoscimento di un beneficio fiscale per coloro che, dopo aver trascorso almeno due anni di lavoro all’estero, si fossero impegnati a rientrare in Italia. Ora il governo, in attuazione della delega fiscale, intende restringere questo beneficio. Come non empatizzare quindi con quei ricercatori che, dopo essere emigrati, vorrebbero tornare? Difficile non farlo. Forse impossibile. Eppure, a costo di attirarci la loro antipatia, vorremmo provarci. Sia chiaro: la questione è importante e qualunque riforma necessita di gradualità, per non mettere in difficoltà chi, su questi sconti, aveva costruito un percorso di carriera e di vita. Al contempo, l’occasione è buona tanto per riflettere sul contenuto di quell’incentivo quanto per interrogarci sui suoi effetti economici.Riguardo il contenuto, parlare di sconto fiscale è in effetti fuorviante. Una volta tanto, non perché esso sia esiguo ma per l’esatto contrario: la misura prevede infatti, al momento, l’esenzione minima del 70% della base imponibile ai fini Irpef per quattro anni per tutti i lavoratori, fino a punte del 90% per i ricercatori e per chi si trasferisce al sud. Il beneficio è prolungabile fino a tredici anni nel caso il ricercatore o docente abbia nel frattempo allargato la famiglia con bambini. In altri termini, per un minimo di quattro anni, il ricercatore che rientra in Italia pagherebbe imposte solo sul 10% del proprio reddito. Un trattamento fiscale oggettivamente generoso e chiaramente regressivo. Per quanto riguarda gli effetti economici, quello più importante concerne l’effetto di medio periodo della norma: alla lunga, questi lavoratori resteranno nel nostro paese o torneranno all’estero? Ebbene, le ricerche disponibili, basate sui dati dell’Agenzia dell’entrate, testimoniano come metà dei ricercatori torni all’estero alla fine del periodo di beneficio. Un fenomeno dalla narrazione duplice: per i diretti interessati, segno che le condizioni di vita e lavoro nel nostro paese sono talmente scarse che è comunque meglio tornare all’estero; agli altri italiani, invece, resta il sospetto che questa retorica nasconda la volontà di usare il proprio paese solo per sfruttare i vantaggi fiscali previsti. I livelli della discussione sono due. Da un lato, ci si chiede se valga la pena di sollevare una polemica del genere contro il governo quando è evidente che gli spazi di manovra all’interno del bilancio pubblico siano risicati. I nuovi benefici, se la modifica verrà confermata, taglieranno infatti lo sconto dal 90 (o 70) al 50%: comunque un trattamento di estremo favore. Dall’altro lato, ci si chiede se dal punto di vista della giustizia sociale, se non perfino di quella costituzionale, sia sostenibile una così evidente disparità di trattamento con chi, in questi anni, ha sempre lavorato e pagato le imposte in Italia. I lavoratori rimasti in Italia e paragonabili ai ricercatori e professori universitari in rientro, quelli cioè con un reddito per esempio superiore ai 50.000 euro, si apprestano a essere gli unici che non beneficeranno di alcuna agevolazione tra quelle inserite in manovra e che valgono ben 15 miliardi di euro, vale a dire riduzione dell’Irpef e decontribuzione. Miliardi che, peraltro, saranno prevalentemente finanziati dalle loro imposte (per ripagare il deficit contratto). Vale la pena di ricordare, infatti, che l’80% del gettito Irpef deriva da lavoratori dipendenti e pensionati, e che le fasce di reddito superiori ai 35.000 euro (solo il 12% del totale) pagano ben il 60% di questo 80%: significa circa 100 miliardi di euro, su un gettito totale dell’imposta di 200 miliardi. Ora, nell’anno 2023, con un debito pubblico alle stelle e le difficoltà, più politiche e tecniche, nel ridurlo, si tratta dell’ennesimo polverone, alimentato anche da una certa opposizione poco responsabile, di cui il Paese avrebbe fatto volentieri a meno. Nel 2010, il primo intervento in materia (la cosiddetta legge “controesodo") aveva l’esplicito e principale obiettivo di rimpatriare, in un sud sempre meno popolato, giovani e imprenditori che creassero aziende e lavoro. Nonostante le eccellenti intenzioni, fu un fallimento sin da subito: pochi imprenditori ma molti lavoratori dipendenti, molti dei quali, come si è documentato, sarebbero poi tornati all’estero. Sarebbe forse meglio, in questa fase storica, non dividere quindi i cittadini tra residenti ed emigrati ma provare a concentrarsi sulle condizioni che rendono il paese appetibile alla forza lavoro qualificata, sia essa italiana o straniera, e che renda le decisioni di mobilità frutto di libera scelta e non una fuga.