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 2023  settembre 12 Martedì calendario

Biografia di Alain Ducasse

Alain Ducasse, nato a Orthez (Nuova Aquitania, Francia) il 13 settembre 1956 (67 anni). Cuoco. Imprenditore (francese naturalizzato monegasco nel 2008, rinunciando alla nazionalità di nascita). Dalla morte di Joël Robuchon (8 agosto 2018), massimo detentore vivente di stelle Michelin (21 in tutto). «Per riuscire in pieno in un’impresa del gusto, il sessanta per cento deve essere la qualità degli ingredienti, il trentacinque la tecnica, il cinque il talento. La mia ricetta si basa sul principio di una cucina essenziale, comprensibile, non necessariamente cara, cercando equilibrio fra tradizione, territorio, ritmo delle stagioni ed evoluzione dei tempi» • «Nato in una fattoria del sud della Francia, Ducasse è stato svezzato con ortaggi piantati in casa, funghi raccolti nei boschi dal nonno e pesci appena pescati nel fiume. “A primavera ci bastava raccogliere qualche patata, due cetrioli e tre ravanelli per avere il pranzo pronto. La carne e le uova venivano vendute, e noi le potevamo avere solo una volta al mese”» (Anaïs Ginori). «Da bambino […] trascorreva ore nella grande cuisine di nonna Jeanne, colpito da attrazione odorosa (“i profumi di baguette e biscotti che uscivano da lì erano irresistibili all’epoca e tuttora sono per me determinanti”, confida), collaborando al punto che il dolce di Natale dei suoi dodici anni fu un soffice (e profumatissimo) gâteau di cioccolato firmato dal piccolo Alain e divorato dall’intera famiglia Ducasse nella fattoria di Castelsarrasin, nel sud-ovest della Francia» (Francesca Alliata Bronner) • «Perché ha scelto di fare il cuoco? “L’ho deciso quando avevo 12 anni, per la disperazione dei miei genitori. Tutti i miei amici volevano diventare piloti o ingegneri. E mia madre diceva: ‘E tu vuoi diventare cuoco?’”» (Alain Elkann) • «A cucinare ha […] imparato presto, lasciando la Guascogna e la fattoria dei genitori per frequentare l’alberghiero, e lavorando poi con tre icone leggendarie della cucina francese: Michel Guérard, Roger Vergé e Alain Chapel. I primi due lo forgiano, ma è il terzo a trasformarlo nel profondo, iniziandolo al culto della materia prima che sfocia nella selezione esasperata di ogni ingrediente. “A partire da oggi, piccolo, dimentica tutto”, è l’invito di Chapel al ventunenne Ducasse quando varca la soglia del suo ristorante a Mionnay. E subito segue l’enunciato della sua filosofia, che passerà dal vecchio al giovane per arrivare viva fino a oggi: “Il prodotto è la sola verità e il solo divo della cucina. Non il cuoco, il cui unico compito è rispettarlo fino a esaltarne la verità”» (Paolo Vizzari) • Promosso nel 1980 capocuoco da Vergé nel suo ristorante L’Amandier de Mougins, l’anno successivo assunse la direzione delle cucine de La Terrasse dell’Hôtel Juana a Juan-Les-Pins, in Costa Azzurra, dove nel 1984 ottenne dalla Guida Michelin le sue prime due stelle. Quello stesso anno, il 9 agosto, rimase coinvolto nello schianto di un piccolo aereo da turismo, risultando l’unico sopravvissuto dei cinque passeggeri, sia pure in gravi condizioni. «Perde un occhio ed è costretto a restare diciotto mesi fermo in un letto. […] Impara così a delegare e controllare a distanza, doti che gli saranno fondamentali per la gestione dell’impero che verrà. […] Al momento dello schianto aereo, […] Ducasse a Juan-Les-Pins sta mettendo a punto nel tempo la sua cucina, la “cucina della Riviera”, che traduce in piatti il sole e il mare della Costa Azzurra, e arriverà a compimento nelle fastose sale del Louis XV di Montecarlo, dove il guascone si sposta a partire dall’87. Quando Ranieri di Monaco e la sua Société des Bains de Mer (che controlla per intero locali e alberghi di lusso nel Principato, compreso l’Hôtel de Paris dentro cui brilla il Louis XV) bussano alla sua porta per proporgli il ruolo di chef, vedono la propria offerta subire un rilancio clamoroso: Ducasse non è disposto a dire “sì” a meno d’aver garanzia di libertà assoluta, sia sulla linea di cucina sia sul fronte gestionale. In cambio, è disposto a inserire nel contratto una clausola che prevede le sue dimissioni nel caso in cui non riesca a raggiungere le tre stelle in quattro anni. La Société accetta, e il 16 marzo del 1990, trentatré mesi dopo il lancio della scommessa, l’obiettivo è centrato. Ducasse diventa il più giovane tristellato di sempre (verrà scalzato solo una dozzina d’anni più tardi da Massimiliano Alajmo), e il Louis XV il primo ristorante d’hotel ad aver mai ricevuto il massimo riconoscimento dalla Rossa. Di qui in avanti l’ascesa a mito è rapida e continua, con la sua cucina mediterranea che si contrappone agli istinti francesi ridisegnando i temi classici e sostituendo, dove possibile, burro e fondi con olio, basilico o erbe aromatiche. Tutto è più leggero, vengono abolite le lunghe cotture perché snaturano i prodotti, così come le salse troppo intense per la loro tendenza a rubare la scena. Nascono piatti essenziali, inni ai sapori autentici costruiti sulla sottrazione, e ne nasce uno in particolare cui Ducasse rimarrà sempre affezionato, a metà fra coperta di Linus e cavallo di battaglia. È la casseruola di verdure primaverili, semplice e stordente, una delle poche ricette che ancora oggi trova prima o poi posto nel menu di tutti i suoi ristoranti. Nel ’95 raggiunge un altro primato quando il suo maggior rivale per la considerazione di miglior cuoco del mondo, Joël Robuchon, appende (momentaneamente) la toque al chiodo a causa dello stress, e Ducasse compie un altro azzardo in principio criticato dai più. Rileva il locale lasciato da Robuchon in avenue Raymond-Poincaré, e sbarca a Parigi col suo ristorante “Alain Ducasse”, deciso a conquistare la capitale. Le prime reazioni sono fredde, se non scettiche. Qualcuno parla di “turista mediterraneo a Parigi”, altri si chiedono “chi creda di incantare con due foglie di basilico e qualche goccia d’olio”. Quando a otto mesi dall’apertura arrivano tre stelle dirette, molte bocche smettono di parlare, ma la Michelin adotta una scelta politica contestatissima: il Louis XV perde una stella, perché vi sono dubbi circa la possibilità che un solo uomo possa gestire due grandi ristoranti in contemporanea. Ducasse prende la puntura come una sfida e l’accetta di buon grado. Macina nuove aperture a ritmo sempre più incalzante, costruisce una fitta rete di hotel e ristoranti in Francia e all’estero, e infine riconquista la terza stella al Louis XV nel ’98. È il primo uomo dai tempi di Eugénie Brazier ottant’anni prima ad avere sei stelle in due ristoranti, e si cuce addosso un ruolo innovativo che poi altri replicheranno, quello del cuoco-imprenditore, chef alla testa di varie cucine ma pure fine manager con grandi capacità gestionali. François Simon, autorevole critico de “Le Figaro”, lo prende in giro attribuendogli l’invenzione del “fax-food”, perché sostiene che il posto del cuoco sia la cucina, non uffici e aeroplani. Lui fa spallucce e apre altri sei ristoranti. Continua a viaggiare senza sosta per visionare da vicino i suoi progetti, e a ogni tappa si ferma per scoprire prodotti, tendenze o antiche usanze, che poi rielabora per creare nuovi format ristorativi e fornire freschi slanci alle cucine dei suoi locali. Nel frattempo forma decine di cuochi francesi e stranieri che negli anni diverranno a loro volta fuoriclasse (da Jean-Francois Piège a Elena Arzak, da Franck Cerutti a Massimo Bottura…), dando vita a una vera e propria “génération Ducasse” e sdoganando per la prima volta l’assunto che per uno chef con una forte squadra alle spalle non sia necessario presenziare ogni giorno in cucina. Nel 2000 trasferisce il proprio ristorante di Parigi nell’hotel dello sfarzo per eccellenza, il Plaza Athénée, e prosegue il decennio moltiplicando fatturati e riconoscimenti con una spinta ancora oggi in ascesa, potendo ormai contare su decine di insegne per un totale di 18 stelle Michelin (tre con il punteggio massimo), una casa editrice e una fabbrica di cioccolato; oltre a una miriade d’altri locali di diversa natura (dal neoclassico ristorante di pesce “Rech”, al bistrot stellato “Benoit”, passando per i vari e visionari “Spoon” sparsi per il mondo). Ogni suo progetto ha un’identità propria, eppure ognuno parla la lingua di Alain Ducasse» (Vizzari) • Nel 2014 fece discutere la sua scelta di eliminare dal ristorante parigino Alain Ducasse del Plaza Athénée le portate a base di carne: «Tartare, adieu. Addio foie gras, paté e vari agnelli in crosta o conigli selvatici alla salvia e rosmarino: lo chef è diventato vegetariano. Alain Ducasse, pluristellato Michelin e papa dell’haute cuisine, ha deciso: via la carne dal menu, “naturalité” è la nuova parola d’ordine di una cucina che diventa più “radicale”, etica e sostenibile. “Il pianeta ha risorse rare, che dobbiamo consumare in modo più equo e morale”, predica ora Ducasse. […] Sì, la haute cuisine può fare a meno della carne, ma non rinunciare al lusso, alla varietà, alla “gourmandise”. Fuori dalla carta dunque selvaggina, anatre e arrosti, e benvenuti al pesce, soprattutto quello “povero”, ai cereali (“bio fin quanto si può”), verdure (ma solo quelle degli orti della Regina, coltivate al castello di Versailles). […] Lui dice basta “all’offensiva mondiale di grassi, zucchero e fritti”, predica “poco burro, niente creme, giusto il succo delle verdure”. […] Il menù si rivoluziona, ma il conto, quello, no. […] Alla fine l’addizione resta quella del vecchio Plaza Athéneé carnivoro: 380 euro bevande escluse» (Francesca Pierantozzi) • Dal 1999 Ducasse è presidente di Châteaux & Hôtels Collection, catena di alberghi e ristoranti che conta circa seicento strutture di gran pregio. «Era il 1994, quando ho scoperto in Provenza, presso le Gole del Verdon, l’antica casa di un maestro vasaio. Da questo vecchio edificio si sprigionava un fascino incredibile. L’ho rimesso in sesto e, l’anno seguente, ne ho fatto un piccolo albergo di tredici camere con un ristorante. Sono diventato albergatore, una professione che dopo tutto non è che un altro modo di essere cuoco. Châteaux & Hôtels Collection è la logica conseguenza di questa storia» (a Daniela Guaiti) • Nel 2021 ha aperto insieme allo chef Albert Adrià il ristorante “Admo”, sul tetto del Musée du Quai Branly a Parigi, con vista sulla Tour Eiffel. «L’avventura imprenditoriale franco-spagnola dei due chef, può contare sulla collaborazione dello chef Romain Meder, braccio destro di Ducasse, e di Vincent Chaperon, chef de cave di Dom Pérignon. A questo si aggiungano i dolci creati dalla francese Jessica Préalpato, votata miglior pasticcere del mondo nel 2019 dalla lista 50 Best. Sono i responsabili di un menu con cinque portate a pranzo e sette la sera, al prezzo molto parigino di 380 euro, vini (francesi e spagnoli) a parte. Avete indovinato: Admo – acronimo di Adrià-Ducasse-Meder-Ombres – si rivolge innanzitutto a una clientela di benestanti, anzi di molto benestanti» (Borja Hermoso) • Da ottobre 2023 gestirà il ristorante del nuovo albergo a cinque stelle lusso dell’imprenditore Alfredo Romeo a Roma, “RomeoRoma” a piazza del Popolo, all’inizio di via Ripetta. «La nostra sarà la cucina più importante del mondo e l’incontro di queste due cucine e di questi due tradizioni, italiana e francese, si rivelerà esplosivo. La nostra ambizione è quella di piazzarci ad un livello talmente elevato che nessuno riesca a pensare di poterci preoccupare» • «Qual è la tua definizione di gastronomia? “Guardare a un prodotto e cercare di rispettarne il sapore originale, il sapore di chi l’ha coltivato, allevato o pensato, utilizzando la giusta preparazione, la giusta cottura e il giusto accompagnamento. Il messaggio della gastronomia deve essere chiaro a tutti e restare permeabile per poter apprezzare ciò che la natura ha donato. È il rispetto del prodotto"» (Carlo Petrini) • «C’è un prodotto che invidia all’Italia? “Sì, l’olio d’oliva”. Ma quale? “O ligure o toscano: dipende da cosa cucino. È comunque uno dei miei due ingredienti fondamentali”. E l’altro? “Il sale di Guérande”» (Alberto Mattioli) • «Tra le ricette che lo identificano di più ci sono sicuramente la barigoule di verdure alla vaniglia, ossia un misto di verdure croccanti in casseruola in cui i sapori pungenti di aglio, finocchio e cipolla si mescolano alla perfezione con l’aceto di ciliegie e le bacche di vaniglia, o i frutti di mare e patate alla marinara, da servire direttamente dalla casseruola in cui sono stati mantecati. E per dolce le ciliegie nel loro succo: cotte nel vino con aggiunta di burro, zucchero e vaniglia un ottimo dessert, accompagnate da gelato alla crema o al pistacchio» (Daniele De Sanctis) • Sposato, due figli • «“Sono un maniaco della precisione fin da quando ero bambino: forse anche per via della mia nascita, che capitò un 13 settembre sotto il segno della Vergine, e della mia storia personale. Quel che mi attrae davvero è fare qualcosa di inimitabile. Sempre. Ogni volta diverso da quello che ho realizzato prima. Possibilmente migliore. Ma ovunque e comunque unico”. […] “Non esistono geni in gastronomia. Di geni, ne nascono al massimo un paio al secolo, e nessuno è mai stato uno chef. Mi sento soltanto un artigiano della cucina”. […] “Tra le cose che pretendo, i cellulari spenti in sala. Ai miei ospiti dico sempre che la grande cucina è come la grande musica: bisogna lasciarsi andare alle suggestioni, alle consistenze di un pentagramma, sforzandosi di distinguere nettamente una nota dall’altra”». «Io cucino costantemente nella mia testa. Lo dico senza millanteria perché tutti i cuochi sperimentati potrebbero dirlo: siamo come musicisti che sentono l’orchestra appena leggono la partitura. Perciò io posso immaginare perfettamente il risultato finale preparando la ricetta su un pezzo di carta. Poi la assaggio. Comincia allora un lungo lavoro di messa a punto con i miei cuochi per regolare in modo esatto i dettagli della cottura, del condimento, degli ingredienti. Non è raro che questo lavoro duri mesi, durante i quali il piatto è rifatto una dozzina di volte per arrivare esattamente a ciò che voglio» (a Domenico Quirico) • «“In molti ristoranti dove lo chef sta in cucina si mangia meno bene che nei miei. Io sono un direttore artistico. Anzi, un allenatore. I miei chef fanno da mangiare meglio di me, ma fanno da mangiare come voglio io”. […] Lei è ricco e famoso. Ha qualche rimpianto? “Soltanto che le giornate non durino 48 ore”» (Mattioli).