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 2023  settembre 01 Venerdì calendario

Biografia di Bruno Contrada

Bruno Contrada, nato a Napoli il 2 settembre 1931 (92 anni). Ex poliziotto. Ex funzionario dei servizi segreti • Già direttore della Mobile di Palermo. Già capo della Criminalpol della Sicilia occidentale. Già dirigente del Sisde. Arrestato per mafia il 24 dicembre 1992, i pentiti Tommaso Buscetta, Rosario Spatola, Gaspare Mutolo e Giuseppe Marchese lo avevano accusato di collusioni con Cosa Nostra • «Contrada è l’italiano più simile a Joseph K., disperato eroe di Franz Kafka, quello che “doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto”» (Giuliano Ferrara, Foglio 15/4/2015) • «Un fantasma dell’antimafia» (Riccardo Lo Verso, Foglio 22/5/2023) • «A un certo punto era divenuto per la stampa e perfino per il cinema, ancora da libero, una sorta di emblema del poliziotto oscuro, legato a torbidi intrecci» (Massimo Bordin, Il Foglio 13/10/2012) • Protagonista di un’epopea giudiziaria durata tre decenni. Tribunali, corti d’appello, Cassazione, richieste di grazia, svariate richieste di risarcimenti e revisioni del processo, su su fino alla Corte europea di Strasburgo. Condannato in via definitiva a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, libero per fine pena dal 2012. Nel 2017 la Cassazione, accogliendo una sentenza di Strasburgo, ha dichiarato la sentenza di condanna «ineseguibile e improduttiva di effetti penali» • «Ma nel Paese delle verità nascoste, o delle mezze “verità”, il dubbio resta. Chi è stato Bruno Contrada? L’uomo del grande tradimento, il servitore dello Stato che patteggiava con la mafia, come i grandi accusatori l’hanno voluto dipingere?» (Giuseppe Alberto Falci, Linkiesta 12/10/2012) • Oggi, ultranovantenne, è soltanto un povero vecchio. «I capelli bianchi al vento, la barba lunga, il viso stanco e un bastone a sorreggerlo». Continua a ribadire la sua non-colpevolezza: «Sono stato incriminato, arrestato, processato, condannato, poi assolto e ancora condannato e incarcerato. Di tutte le accuse che hanno infangato e devastato la mia esistenza, nessuna risponde al vero». E aggiunge: «Per raccontare quello che ho vissuto, ci vorrebbe non un libro, ma i quarantuno volumi della Commedia umana di Balzac».
Titoli di testa «Non esiste solo la morte fisica, ma anche quella civile. E quella che ho subìto io non è stata solo una condanna a dieci anni di carcere, ma una condanna alla morte civile».
Vita Napoletano, famiglia borghese e fascista. «Eravamo nove fratelli. Mio padre avvocato e combattente, faceva guerre e cause. Era un ardente mussoliniano. I valori della mia infanzia erano Dio, Patria e Famiglia» (Giancarlo Perna, Libero 14/3/2016) • Il padre è ufficiale, loro lo seguono ovunque. Dai due ai nove anni, Bruno è in Libia: Derna, Misurata, Bengasi, Tripoli. Dai nove ai dodici anni a Napoli, Roma, quindi a Como, nella Rsi. «Poi, gli anni della giovinezza, non molto spensierata, a Napoli, la Napoli del dopoguerra, la Napoli piegata e piagata. Il ginnasio, il liceo, l’università. Poi, a vent’anni, l’Esercito: l’orgoglio di indossare l’uniforme di ufficiale dei Bersaglieri» (da una lettera a Roberto Gervaso, Messaggero, 1/8/2007) • Laurea in legge alla Federico II. Poi, nel 1958, entra in Polizia. Dislocato a Latina, a Palermo, a Roma. Percorre tutti i gradi della carriera: da vice-commissario a dirigente generale. Si fa un nome, a Palermo lo chiamano «il dottore». «Un episodio segnò il confine della sua carriera. Era il mese di maggio. Contrada era considerato un poliziotto scaltro, capace, un conoscitore del fenomeno mafioso siciliano. Una notte gli telefonò il questore Vincenzo Immordino: “C’è una rivolta all’Ucciardone, lei e tutti gli altri funzionari fatevi trovare fra un’ora alla Caserma Lungaro”. Ma non era vero nulla. Immordino bluffava, “non c’era nessuna rivolta in carcere”. Il questore voleva depistare Contrada e i suoi collaboratori. Stavano per essere arrestati quarantadue uomini d’onore. La retata fu eterodiretta da funzionari venuti da Roma e dalla Calabria. Il dado era ormai tratto: il questore Immordino non si fidava più del ‘dottore”. Nonostante tutto, quando a Palermo cominciarono a sospettare su Contrada, “il dottore” continuò a fare carriera. In pochi anni diventò il numero 3 del Sisde. Era passato anche dall’Alto Commissariato antimafia, un “centro” che si era contrapposto al pool di Palazzo di Giustizia fin dal principio, “un terminale del vecchio e sbirresco stile di fare investigazioni a Palermo”» (Falci) • Sono anni terribili in Sicilia. Anni in cui la carriera di «Contrada era ormai un passo indietro. E gli altri – Cassarà, Montana, Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Caponnetto – sempre un passo avanti. Soli, sempre più soli» (Attilio Bolzoni, Rep) • L’anno di svolta è 1992. Il 23 maggio, la strage di Capaci, Giovanni Falcone è fatto saltare in aria con 500 chili di tritolo. Il 19 luglio, la strage di via D’Amelio, in un attentato perde la vita Paolo Borsellino. La mattina del 24 dicembre 1992, la svolta. È la vigilia di Natale, la signora Adriana – moglie del questore - sta preparando tortellini in brodo per il cenone. Uomini della direzione investigativa antimafia si presentano nella sua villetta di Palermo. Contrada è ammanettato. Per qualche ora, rinchiuso nel carcere militare della città. Poi caricato in gran segreto su un aereo, volo per Ciampino, Roma, da lì a Forte Boccea, vecchio carcere militare della capitale • Grande scandalo, quindi: ecco la talpa, il poliziotto colluso con la mafia! Girano le voci più incontrollate. C’è chi mormora che Contrada, sposato e padre di due figli, sia in realtà un gran donnaiolo, e per questo «permeabile». Nel 1982 avrebbe avvisato Totò Riina che stavano per arrestarlo, e lo stesso avrebbe fatto anche con altri latitanti. Pare che un uomo d’onore dei Riccobono gli abbia fatto avere una casa. Pare anche che a Palermo alcuni dei più coraggiosi combattenti della mafia, per completare il loro lavoro, abbiano dovuto entrare in contrasto con lui • Ma c’è chi lo difende. Il capo del Sisde per la Sicilia orientale, De Luca: «Quelle dei pentiti sono calunnie contro un avversario irriducibile». Il capo della Polizia Vincenzo Parisi: «I pentiti che lo accusano in passato sono stati perseguiti proprio da Contrada. Perché avendo avuto l’opportunità di farlo prima lo accusano solo adesso? Non dimentichiamo il caso Tortora». Il presidente della commissione Antimafia Luciano Violante: «L’accusa nei confronti di Contrada si riferisce a un periodo antico, quando i pentiti non c’erano e i poliziotti lavoravano grazie agli informatori. Era inevitabile dunque che avessero qualche contatto coi mafiosi» • Contrada si difende: «Le accuse dei pentiti sono come palle di neve. Nascono piccole e a valle diventano valanghe, intere montagne. Così un pentito tira l’altro per la cosiddetta convergenza del molteplice, dove la stessa balla se è detta da due pentiti diventa verità. Quando entri in questo meccanismo sei finito». «Non c’era alcun pericolo di fuga, ero stato sollevato dall’incarico e non potevo reiterare il reato. Potevo forse minacciare uomini dello Stato o pentiti protetti sempre dallo Stato, sia in Italia che negli Stati Uniti? Diciotto di quei 31 mesi li ho trascorsi da unico detenuto a Forte Boccea. Dovevo restare solo. Doveva essermi inibita la possibilità di difendermi per smantellare prima e meglio le accuse». Nel 1995, scaduti i termini della custodia cautelare, ai cronisti che lo aspettavano all’uscita dal carcere: «Sono soltanto un imputato a piede libero, la strada della giustizia sarà lunga» (La Licata) • 5 aprile 1996, condannato in primo grado a dieci anni di carcere e tre di libertà vigilata • 4 maggio 2001, assolto in appello con formula piena perché «il fatto non sussiste» • 12 dicembre 2002, la Cassazione annulla l’assoluzione e ordina di rifare l’Appello • 25 febbraio 2006, nuova condanna a dieci anni in Appello • 10 maggio 2007, la Cassazione conferma la condanna • Dopo la condanna definitiva, sconta la pena nel carcere militare di Santa Maria Capua a Vetere. Il 24 luglio 2008, domiciliari per motivi di salute. Cronaca di quel giorno: «Erano le cinque del pomeriggio, quando il cellulare dei carabinieri si è fermato davanti alla villetta della sorella Anna, a Varcaturo, sul litorale flegreo, nei pressi di Napoli. Commovente l’abbraccio di Bruno Contrada con le sorelle e i fratelli. L’ex dirigente del Sisde, barba incolta sulle guance scavate, indossava una polo verde e pantaloni beige, un colore che ha sempre preferito, anche quando a Palermo, negli Anni Settanta, comandava una squadra mobile che si apprestava ad intraprendere i primordi della lotta alla mafia. Ai giornalisti che l’attendevano, ha detto semplicemente: “Al momento opportuno, non è questo il momento per parlare”. Poi è entrato in casa e si è adagiato sul divano, un po’ in affanno, mentre Anna raccontava ai cronisti di aver preparato “la provola affumicata che gli piace tanto e un brindisi con lo champagne”. Ma Contrada non ha chiesto né cibo né acqua. Chi lo conosce sa che, questa di ieri, per lui è soltanto una tappa, importante, ma solo una tappa. Il traguardo finale è descritto nelle parole che ha confidato al fratello, Vittorio. Contrada dice di voler restituito il proprio onore, perché “è il solo patrimonio che mi sento di dover lasciare integro ai nipoti”. La battaglia continua, insiste l’avvocato Lipera. Oggi terrà una conferenza stampa per spiegare perché il provvedimento del Tribunale è contra legem. Ma l’incontro coi giornalisti servirà anche per controbattere l’attacco venuto da una durissima dichiarazione di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio. “Non posso accettare - ha detto - la scarcerazione di Bruno Contrada, il mio animo si rivolta; il constatare che agli assassini di mio fratello non è bastato ucciderlo ma che stanno completando l’opera, mi ripugna, mi sconvolge”» (La Licata, Sta 25/7/2008) • Fine pena: 12 ottobre 2012 • 11 febbraio 2014, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Strasburgo) condanna l’Italia per non aver concesso a Contrada, «gravemente malato», gli arresti domiciliari (risarcimento: 10 mila euro di danni morali, 5 mila di spese processuali) • 14 aprile, la Corte europea condanna l’Italia perché all’epoca dei fatti di cui era accusato Contrada il reato di concorso esterno in asociazione mafiosa «non era sufficientemente chiaro, né prevedibile da lui» e per aver violato il principio di nulla poena sine lege (10 mila euro di danni morali, 2 mila 500 di spese processuali) • Per effetto di questa sentenza l’istanza di revisione del processo, presentata già altre tre volte dagli avvocati di Contrada e sempre respinta, viene ammessa. Nel 2017 la Cassazione ha dichiarato la sentenza di condanna «ineseguibile e improduttiva di effetti penali» • Seguono commenti. Giuliano Ferrara: «È noto che la vecchia polizia, ai tempi in cui non tutto era definito abusivamente con la tecnica mal governata del pentitismo o delle intercettazioni a strascico, aveva i suoi confidenti, metteva con coraggio le mani in pasta per catturare e portare a esiti di giustizia i boss mafiosi, attuando una strategia fatta di razionali distinzioni e strumentali abboccamenti. E i boss braccati dai superpoliziotti come Contrada trovarono il modo, in un’epoca di barbarie giuridica, di rivalersi. Il solito Antonio Ingroia, oggi avvocato Ingroia dopo essere stato candidato Ingroia, nella sua veste di allora di pm aveva imbastito l’accusa che trasformava la pratica di polizia in vigore per una intera epoca storica in una collusione, anzi in un “concorso” collusivo che solo una sentenza della Cassazione, due anni dopo l’arresto di Contrada (1994), definì, quasi la Cassazione avesse il potere di fare una legge, come reato associativo (da quasi tutti considerato flebile nelle premesse logiche e giurisdizionali). Quando si dice la giustizia». Marco Travaglio «La Cassazione ha annullato le conseguenze della condanna definitiva di Bruno Contrada a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, in un “incidente di esecuzione” che non entra nel merito del verdetto e discute la colpevolezza, ma rende “ineseguibile e improduttiva di ogni effetto” la sua stessa pronuncia. E così si associa a quanto stabilito nel 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ritiene di fatto inesistente il reato di concorso esterno prima del 1994, perché fino ad allora (quando la Cassazione si pronunciò a sezioni unite) la giurisprudenza oscillava e gli uomini dello Stato non sapevano che vendersi alla mafia era reato. Il Contrada che oggi politici, tg e giornaloni ignoranti, smemorati o in malafede dipingono come un povero martire innocente e perseguitato per un quarto di secolo dagli aguzzini in toga è l’uomo che una quarantina di giudici di funzioni e sedi diverse fino alla Cassazione, han giudicato colpevole di aver fatto per anni il trait d’union fra Stato e mafia. Non solo per le accuse di una ventina di pentiti (le prime furono di Gaspare Mutolo davanti a Borsellino, assassinato due settimane dopo), ma pure da una gran quantità di autorevolissimi testimoni. Vari giudici raccontarono la diffidenza di Falcone e Borsellino nei confronti di “’u Dutturi”: Del Ponte, Caponnetto, Almerighi, Vito D’Ambrosio, Ayala, oltre a Laura Cassarà, vedova di Ninni (uno dei colleghi di Contrada alla Questura di Palermo assassinati dalla mafia mentre lui vi colludeva). Tutti a ripetere che Contrada passava informazioni a Cosa Nostra e incontrava boss come Rosario Riccobono e Calogero Musso. Nelle sentenze a suo carico si legge che Contrada concesse la patente ai boss Stefano Bontate e Giuseppe Greco; agevolò la latitanza di Totò Riina e la fuga di Salvatore Inzerillo e John Gambino; ebbe rapporti privilegiati con Michele e Salvatore Greco; spifferò segreti d’indagine ai mafiosi in cambio di favori e regali (come i 10 milioni di lire accantonati nel bilancio di Cosa Nostra a Natale del 1981 per acquistare un’auto a una sua intima amica). Decisivo fu il caso di Oliviero Tognoli, l’imprenditore bresciano arrestato in Svizzera nel 1988 come riciclatore della mafia. Secondo Carla Del Ponte, che lo interrogò a Lugano con Falcone, Tognoli ammise che a farlo fuggire dall’Italia era stato Contrada. Ma poi, terrorizzato da quel nome, rifiutò di verbalizzare e in seguito ritrattò. Quattro mesi dopo Cosa Nostra tentò di assassinare Falcone e la Del Ponte all’Addaura. Ora quest’uomo verrà risarcito dallo Stato con soldi nostri per i 10 anni trascorsi in carcere, riavrà a spese nostre la pensione di dirigente della Polizia che gli era stata revocata, oltre al diritto all’elettorato attivo e passivo (potrà votare e anche essere eletto). Ma non solo: tutti i condannati per concorso esterno, da Dell’Utri in giù, chiederanno lo stesso trattamento, cioè di salvarsi dalle conseguenze di sentenze anche definitive e tornare alla vita normale, magari anche in Parlamento, da sicuri colpevoli del gravissimo reato che hanno inoppugnabilmente commesso. Se qualcuno avesse ancora bisogno di prove sulla trattativa Stato-mafia avviata 25 anni da alcuni carabinieri del Ros e tuttoggi in pieno corso, è servito» • Francesco Merlo: «Su questo enigma del grande Meridione d’Italia che è Bruno Contrada non si sono avventate e non si sono accanite solo la politica e la magistratura, ma anche, e forse più di tutti, quelli di noi che cercano l’univocità nel senso della storia italiana. Nel Sud si è combattuta una guerra non convenzionale dove la forza era data dagli infiltrati: dai mafiosi che si infiltravano nelle istituzioni e dalle istituzioni che si infiltravano tra i mafiosi. È ovvio che facciano scena, in queste guerre, le sfumature tragiche, i mezzi colori inquietanti, i personaggi alla Lawrence d’Arabia, i questurini alla Bruno Contrada».
Amori Sposato dal 1959 con una Adriana Del Vecchio, sua coetanea, napoletana come lui, professoressa di lettere alle medie. Dopo che lui finì nei guai, gli è rimasta accanto. Preghiere. Lacrime. Lettere ai magistrati. Per anni braccata dalle telecamere, interviste rilasciate ad alta voce, quasi gridando, attorniata da una selva di cronisti. Disse: «Caino è un collega di mio marito. È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera... È qualcuno che ha capito che la Sicilia poteva essere usata come trampolino di lancio per fare carriera». Il giorno in cui lui uscì dal carcere, gli preparò tortellini in brodo, il piatto che stava cucinando per la vigilia di Natale in cui fu arrestato: «Dobbiamo ricominciare da dove ci hanno interrotto». Finì immobilizzata per una cardiopatia. Morta a Palermo il 16 gennaio 2019.
Figli Guido, avvocato, primi passi nello studio del professor Salvatore Orlando Cascio, padre di Leoluca Orlando. Antonio, agente di polizia, caduto in depressione dopo l’arresto del padre.
Politica/1 «Mi sono sempre sentito di destra, ma non fascista come mio padre. Liberale. Nelle mie vene, oltre al sangue paterno, scorre quello di mio nonno socialista e del bisnonno liberale e antiborbonico». Segue ancora la politica? «Ne sono sconcertato. Non vedo differenze tra Pd e Fi. Tutti uniformi, mandano avanti la baracca dello Stato, senza progetto». Chi vota? «Non ho questo problema perché sono interdetto, causa condanna. Devo vedere che vota l’extracomunitario che ha appena avuto la cittadinanza e io, che ho sempre avuto l’amore per la Patria e lo Stato, non posso». E schiuma di rabbia. «Non conosco l’odio. Sono pervaso di indignazione» (Perna, 2016).
Politica/2 Nel 2017 si è iscritto al Partito radicale.
Curiosità Su Facebook c’è un gruppo Vogliamo Bruno Contrada senatore a vita, 1590 iscritti • Oggi è tornato a vivere a Palermo • Passatempo preferito: leggere, anche se oggi ha problemi di vista e non gli riesce più • Nel suo studio: tappeto pregiato, poltrone in cuoio rosso e un capitale in libri. L’intera Treccani e tutta la serie Utet degli Scrittori italiani e latini. Un busto in bronzo di Seneca e un cartello con la scritta: «Il libro non è morto e la carta neppure» • Poeta preferito: Orazio • Ha letto tutto il Benedetto Croce storico • Tra gli scaffali della libreria tiene foto, attestati militari, polizieschi, etc. In bella vista: una foto di lui ventenne, ufficiale dei bersaglieri, con il cappello piumato • In carcere ha sofferto di quindici patologie, incluso un ictus • «Non ho mai commesso nulla di delittuoso, di illecito, di illegale (forse qualche lieve infrazione del Codice della strada...)» (dalla lettera a Gervaso) • Diceva Richelieu: «Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò di che farlo impiccare». È ciò che le accadde? «Esatto. Se si vuole trovare qualcosa si trova, specie nella vita del poliziotto. Perché il mio mestiere era di restare con le mani pulite pur rimestando nel sudiciume della società». Suoi più accaniti accusatori furono il Capo della Procura di Palermo, Gian Carlo Caselli, e il pm Antonio Ingroia. «Caselli arrivava dal Piemonte senza conoscere nulla né della Sicilia, né della mafia. Così come irruppero nel 1861 i funzionari del Regno sardo. Gli concedo perciò qualche attenuante per ciò che mi è stato inferto». Ingroia è sicilianissimo. «E non gli concedo attenuanti» (Perna) • «Non porterò, tra non molto tempo, nessun segreto nella tomba» • «La parte preponderante della mia esistenza al servizio dello Stato la ripeterei, la rifarei tale e quale. Senza rammarico e pentimento» • «“La giustizia, l’uomo ha diritto ad averla sulla Terra, non dopo la morte”. Mi porta in un’altra stanza piena di faldoni del processo, almeno cinquanta, e dice: “Vorrei dare fuoco a tutto. Ma non posso lasciare un nome infangato. Lotterò fino all’ultimo respiro”» (Perna).
Titoli di coda «Io non mi considero innocente perché lego sempre questa parola ai bambini o le do un significato religioso. Io sono “non colpevole”».