il Giornale, 23 ottobre 2023
Intervista a Pier Luigi Pizzaballa
Gli ex ragazzi della «Generazione Coccoina» (quelli che le «figu» Panini le attaccavano usando la colla) se lo ricordano come un portiere introvabile; e per questo ricercatissimo.
Pier Luigi Pizzaballa, classe 1939, è stato però anche un «filosofo». A sua insaputa: discepolo, involontario, del pensatore francese Gilles Deleuze (1925-1995).
Deleuze è il padre del principio strutturalista della «casella vuota»: strana tesi («controintuitiva», precisa chi la sa lunga) secondo cui le «assenze sono importanti quanto le presenze». Ma che c’entra questo con Pierluigi Pizzaballa, 84 anni compiuti da poco e portati con la stessa leggerezza di quando volava da un palo all’altro difendendo la porta di Atalanta, Roma, Verona e Milan? C’entra eccome. Anche Pizzaballa (che invecchia bene al pari del vino che si diletta a produrre) è infatti diventato un’icona per merito di una «casella vuota»: quella dell’album delle figurine Panini (campionato ’63-’64), che al «n.1» della raccolta avrebbe dovuto riportare la sua effigie. Ma il condizionale è d’obbligo...
Signor Pizzaballa, ci racconti.
«La vicenda è nota...».
Sarà nota a chi ha una certa età, ma non ai giovani...
«La storia si è tramandata nei decenni. Prima mi dava un po’ fastidio, oggi no. Anzi, mi fa piacere. È anche merito suo se tanti continuano a cercarmi e i tifosi non mi hanno dimenticato».
La «vicenda» è quella del fotografo della Panini che si presentò a Bergamo per immortalare titolari e riserve dell’Atalanta. Squadra al completo. Mancava solo lei...
«Assente giustificato. Avevo il braccio rotto».
Ma l’album doveva essere stampato. La sua foto fu quindi inserita in collezione solo mesi dopo. Fatto sta che la figurina divenne rara come il Gronchi rosa...
«Così narra la leggenda».
Per trovare la «figu» desaparecida non bastava neppure avere santi in paradiso. Come sa bene suo cugino, cardinal Pierbattista Pizzaballa, anche lui da bimbo alla vana ricerca del prosaico «santino».
«Trovarlo equivaleva quasi a un miracolo».
Lei il dono dell’«introvabilità» non l’ha mai perso. Noi, per riuscire a parlarle, abbiamo fatto una ventina di telefonate a vuoto.
«Ero in Sardegna con la famiglia a festeggiare il mio compleanno».
Sempre «assente giustificato». A proposito, tanti auguri! Domanda secca: fa bene il ct azzurro Spalletti a dare fiducia a Donnarumma?
«Sì. Il portiere è il ruolo più delicato. E non si può cambiare il titolare a cuor leggero. Anche se...».
Anche se?
«Un bravo allenatore deve essere pronto a un eventuale piano b, e in alternativa a Gigio ci sono ottime soluzioni. La scuola italiana dei portieri è sempre stata di alto profilo fino all’infornata di portieri stranieri. Alcuni bravi, altri meno...».
Ma qual è il difetto principale dei portieri attuali?
«La mancanza delle esatte geometrie nella copertura degli spazi della porta».
Scarsi nel piazzamento....
«Assistiamo a clamorosi errori di posizione. Oggi si pensa solo a costruire il portiere bravo a giocare con i piedi e si dimenticano le mani. Infatti, nessuno più blocca il pallone come facevamo noi».
In bacheca ha due Coppe Italia: con l’Atalanta e la Roma. A quale è più affezionato?
«Io sono bergamasco e aver battuto il Milan con la squadra della mia città fu un’emozione incredibile. Noi ragazzotti contro i campioni rossoneri sembravamo condannati in partenza. Invece...».
Il suo scopritore, don Antonio, sarà impazzito di gioia.
«Un sacerdote in stile don Camillo. In sella alla sua Moto Guzzi mi portava agli allenamenti. Io facevo il garzone di drogheria a Verdello: il calcio lo amavo, ma non immaginavo che sarebbe diventato un lavoro»
Il suo maestro è stato il grande Ceresoli.
«Mi ha insegnato i trucchi del mestiere. Ma è stato anche un esempio di comportamento fuori dal campo».
Alla faccia di quel giornalista che le disse: «Col cognome che hai non andrai lontano, i portieri devono avere nomi brevi...».
«Certo, Zoff ce l’aveva breve. Ma Albertosi no. Per non parlare di quel portiere del Milan che si chiamava Liberalato».
A proposito di Milan, nel ’73 passò al Diavolo. Titolare nelle due semifinali di Coppa delle Coppe e nella finale persa 2 a 0 contro il Magdeburgo.
«Finale maledetta. Con il clamoroso autogol di Lanzi».
A Dusseldorf, negli attimi del pre-gara, si narra di un’altra sua clamorosa «sparizione».
«Questa non me la ricordo...».
Eppure c’è una prova inconfutabile.
«Quale prova?».
Nella foto di rito che ritrae il Milan schierato a centrocampo prima del fischio d’inizio, ci sono solo 10 giocatori e non 11. Manca il portiere! Come lo spiega?
«Forse la foto fu fatta quando avevo già preso posto fra i pali...». (In effetti dalle riprese tv si nota che, mentre Pizzaballa è già in porta, i fotografi tedeschi chiedono a Schnellinger di fare un ultimissimo scatto ndr).
Per lei, in nazionale, una sola presenza.
«Davanti a me avevo due fuoriclasse come Zoff e Albertosi».
Più forte Dino o Ricky?
«Diversi ma entrambi eccezionali. Zoff, asciutto e taciturno; Albertosi, spettacolare ed estroverso».
A chi si sente più vicino?
«Io bergamasco, Dino friulano. Gente essenziale. Tra noi c’è affinità caratteriale».
E in una società basata più sull’apparire che sull’essere, campioni così sono rari. Quasi introvabili. Come una certa figurina...