la Repubblica, 23 ottobre 2023
Inventario delle cose perdute
Nel mondo finito fuori controllo anche il futuro non è più quello di una volta e sfugge a qualsiasi previsione, perché nell’esplosione della realtà sono saltati tutti i criteri di giudizio e i codici di valutazione degli avvenimenti: ma è possibile rintracciare la vera misura della crisi cercandola nell’inventario delle cose perdute, in quanto appartenevano a un’altra stagione e a una diversa coscienza della pubblica opinione, e oggi non riescono a trovare una loro ragion d’essere nella furia del cambiamento e nel tumulto della fase attuale. C’è anche una data che fissa il momento di separazione tra il prima e il dopo, ed è sempre più l’11 settembre 2001, il vero giorno d’inizio del secolo ribelle e insieme l’ultimo giorno del vecchio ordine che pensava di governare la storia ricomposta e controllare la geografia ridisegnata, ricavandone addirittura una disciplina politica e morale valida ad ogni latitudine.
Abbiamo perso prima di tutto la convinzione dell’invulnerabilità, che derivava direttamente dal nostro benessere, cioè dalla consapevolezza di far parte del Primo Mondo e dunque di essere gli esclusivi produttori e i principali consumatori del progresso scientifico, medico, tecnologico.
L’innovazione ci proteggeva separandoci, ci privilegiava illudendoci: finché il terrorismo islamista ha scelto di concepire l’impensabile volando sotto la linea d’ombra del pensiero occidentale, fino al precipizio delle torri gemelle e dell’improvvisa vulnerabilità dell’America svelata in diretta nelle televisioni di tutto il mondo. Poi, come in una congiunzione astrale, l’immensamente grande e l’infinitamente piccolo si sono uniti per ostruire il nostro futuro e rinegoziare il nostro destino. Un microrganismo visibile solo al microscopio elettronico ha attaccato per la prima volta l’insieme del genere umano con una minaccia di morte, svuotando le città e disconnettendo gli individui nei loro rapporti sociali, mentre la bomba è uscita dagli arsenali dov’era custodita dal grande interdetto che circondava l’arma totale, nella consapevolezza che in quel tutto c’è il niente che resta dopo l’atomica, il definitivo anno zero.
Si è smarrita anche quella rete di garanzia che la generazione dei padri si era impegnata a stendere sul mondo per ripararlo e dunque per proteggerci da noi stessi con organismi e meccanismi di regolazione dei conflitti, autorità di arbitrato internazionale, potestà sovranazionali, strumenti di intervento e forze di interposizione, corti, tribunali: uno sforzo istituzionale, giurisdizionale e costituzionale grandioso per estensione e profondità, concepito e realizzato per garantire nei fatti le condizioni di una coesistenza pacifica anche tra ex nemici e tra sistemi diversi, con ideologie contrapposte. Oggi quella rete di tutele e di prevenzione è stata sabotata ed è disarticolata, contraddetta dalla guerra, che l’ha mandata in tilt.
Privati di uno statuto riconosciuto e accettato che distingua il bene dal male siamo senza decalogo, quindi scoperti, nudi ed esposti come all’uscita del paradiso terrestre, mentre ci inoltriamo guardinghi in terra incognita.
Perdendo la norma, dobbiamo abituarci a un mondo senza regole. Ecco perché la democrazia – un insieme di principi condivisi tradotti in normative liberamente accettate – è in crisi. Noi avevamo concluso il Novecento con la convinzione che la democrazia sconfiggendo i due totalitarismi avesse infine vinto affermando la sua supremazia, e potesse esercitare naturalmente la sua egemonia nel nuovo secolo.
Pensavamo cioè che la religione civile democratica potesse ormai avere un’ambizione globale, trasformandosi in un universale: fino a commettere l’errore di esportarla con le armi, scavalcando la contraddizione insostenibile. Dalle torri gemelle alle caverne afghane, quella pretesa di universale ci è stata restituita ridotta a semplice particolare, ridimensionando la portata e la pretesa del pensiero occidentale nei confini del suo perimetro domestico.
Tra le cose perdute, dunque, c’è la convinzione del primato della democrazia, la speranza che potesse suggestionare il mondo con la sua promessa di giustizia, uguaglianza e libertà, la sua sperimentazione quotidiana dell’esercizio dei diritti e dell’autorità laica delle istituzioni. Al contrario sta crescendo anche in Europa l’insidia del neo-autoritarismo che rifiuta lo stato di diritto, il bilanciamento dei poteri e il sistema dei controlli, proponendo un modello contrario di democrazia della sovranità, coscientemente illiberale. La democrazia ha infine trovato sulla porta di casa la sua contraddizione.
In realtà abbiamo smarrito la grande occasione nei trent’anni senza nome che sono alle nostre spalle e che separano il crollo del muro di Berlino dall’invasione russa dell’Ucraina.
Trent’anni sono lo spazio di una generazione, un tempo sufficiente per capitalizzare la liberazione dell’Est europeo nel suo significato universale, accompagnando quella parte di mondo a completare il cammino, scambiando aiuti conriforme democratiche. Invece ci siamo accontentati di aver vinto, come se la democrazia non fosse una conquista continua, senza fine.
Abbiamo creduto che la dimensione imperiale della Russia (parte della sua anima eterna) fosse soltanto una sovrastruttura del comunismo, svanita insieme con il bolscevismo, autorizzandoci a retrocedere Mosca al rango di potenza regionale, di seconda fascia: finché quell’anima è riemersa come una minaccia nel rigurgito imperialista di Putin.
In Medio Oriente abbiamo sottovalutato la minaccia perenne di morte di Hamas verso Israele, l’ideologia della distruzione che sostituisce ogni politica, mentre vedevamo marcire nella corruzione e nell’inabilità l’Anp senza renderci conto che perdevamo un interlocutore decisivo per il processo di pace, lasciando campo libero alla rappresentanza terroristica dei palestinesi da parte di Hamas invece che all’affermazione dei loro diritti insieme con quelli di Israele.
Ridimensionati nell’hybris del Novecento, possiamo riprenderci oggi quel che abbiamo perduto nel suo nucleo sostanziale: accettando la fatica della democrazia, costretta ogni volta a ricominciare e a dare un nome alle cose in nome di libertà e giustizia. Una magnifica condanna.