la Repubblica, 23 ottobre 2023
Farsi morire di fame
TODI – «Quante volte? Anche dieci al giorno. Vomitavo ovunque. Mi bruciava tutto, la gola, le dita, a volte mi mancava il respiro. Mangiavo e di corsa in bagno. Di notte mi sfinivo di esercizi. Addominali e addominali. In silenzio per non farmi scoprire. Solo così mi sentivo in pace. Anzi fortissima. Sarei tornata ad essere quello scricciolo che vinceva tutte le gare di ginnastica artistica».
La chiamano “luna di miele” della malattia. Accade quando è già gravissima. Occhi scuri, sorriso aperto, Rachele Bertoccini, 20 anni, guarda lontano: «Sono qui da due mesi, sto provando a guarire». C’è quiete a Palazzo Francisci, Todi, nel parco di alberi secolari. Sui letti ci sono peluches e cuori colorati: le più piccole qui hanno undici anni, perché si può voler morire di fame anche se si è bambine. Un tempo si chiamava infanzia e si diceva fosse un’età felice. Un tempo.
Benvenuti nell’avamposto dell’epidemia. Un palazzo del Seicento dove grammo dopo grammo, con gli specchi chiusi a chiave, centinaia di adolescenti ammalati di disturbi del comportamento alimentare approdano per tornare a vivere. Epidemia. È il ministero della Salute a definirla così. Il male più grave, nascosto e devastante della Generazione Z. Digiunare fino a morire, abbuffarsi (e svuotarsi) fino a morire. Essere piuma e vedersi montagna.
Rachele è arrivata ad agosto: «Vincevo tutte le gare, ero la prima della classe. Crescendo però il mio corpo è cambiato: a 17 anni pesavo 55 chili per 1,60 di altezza. Normale? Non per me che avevo conosciuto la felicità quando ero piccola e sottile. Mi sono odiata. Ero diventata troppo pesante per la ginnastica artistica. Ho iniziato una dieta, poi un’altra. Quando è arrivato il Covid ogni cosa si è spenta: passavo le giornate chiusa nella mia stanza guardandomi allo specchio e seguendo ossessivamente i video di TikTok per dimagrire. Mangiavo, vomitavo e mi vedevo grassa, grassa. Era come una tossicodipendenza. Il corpo vuoto mi faceva sentire onnipotente. Oggi peso 39 chili, quando sono entrata ne pesavo 35, sogno la danza, ma per danzare devo essere sana. Ci sto provando, qui si prendono cura di me».
Rachele, così come Irene, riveleranno però un trauma nascosto: aver subito molestie sessuali. Una musica di sottofondo accompagna il pasto delle pazienti. C’è scritto “sala terapia” ed è vietato dire “buon appetito”. Ci possono volere ore per mangiare un pugno di riso al pomodoro, ma la sfida è questa. Molte vincono.
Quasi quattro milioni di malate e malati in Italia, ma il 40 per cento, cioè un milione e mezzo, ha tra i 12 e i 17 anni, il 25 per cento ne ha meno di 14, il 6% nemmeno 12, le femmine sono il 90%, i maschi però sempre di più. Infinite le storie di quante e quanti teenager si sono ritrovati nelle tenebre del cibo nemico durante il lockdown. «Sono numeri sottostimati, numeri soltanto di chi entra in contatto con il servizio sanitario, noi sappiamo che c’è un enorme sommerso ed è il dato più drammatico», afferma con tono deciso Laura Dalla Ragione, psichiatra, che dirige e ha fondato nel 2003 questo centro pubblico all’avanguardia per la cura dei disturbi del comportamento alimentare della Usl1 dell’Umbria. «Quando la malattia è avanzata il rischio di morte è concreto, se si arriva alle cure però si guarisce, voglio dirlo a voce alta, bisogna chiedere aiuto presto, subito». Nel silenzio di un’epidemia che sta minando una generazione l’elenco delle vittime si allunga. Tutte avevano cercato un centro che potesse curarle, ma i centri in Italia sono scandalosamente pochi, 126 strutture, erano 164 nel 2018, vuol dire che mentre la malattia avanza e l’età di esordio si abbassa, le Regioni tagliano posti di ricovero e di riabilitazione. Bisogna ricordarle le vittime. Almeno alcune. Giulia Tavilla aveva 17 anni, muore il 15 marzo 2011 per arresto cardiocircolatorio mentre era in lista per entrare in un centro di recupero. In suo ricordo il padre, Stefano Tavilla, ha fondato l’associazione “Mi nutro di Vita” e ha istituito il simbolo della lotta ai disturbi alimentari, il fiocchetto lilla, emblema della giornata dedicata alla malattia, il 15 marzo. Nel 2020 Lorenzo Seminatore, torinese, gravemente anoressico, muore a 20 anni. Giulia Scaffidi, 17 anni, muore nel reparto di pediatria di Lodi il 28 novembre del 2021, quando pesava ormai 26 chili. Ilena Belotti muore nel 2021, il 4 novembre, a Brescia, pesava 30 chili e aveva 25 anni. Ma l’elenco dolente è assai più lungo.
Perché milioni di adolescenti si stanno ammalando, di chi è la colpa, se esiste una colpa? E come aiutarli? E, soprattutto, si può guarire? Laura Dalla Ragione è una delle massime esperte in Italia di disturbi alimentari. «Abbiamo 35 posti letto e accogliamo pazienti da tutta Italia dopo il ricovero in ospedale. Certo che si può guarire. Qui lavoriamo sul recupero del peso, certo, ma, insieme, sulle radici del loro malessere e sul ritrovare un rapporto con il corpo. Con il teatro, la bioenergetica, il pilates, la psicoterapia, lo yoga. Ogni ragazza è seguita da una micro équipe composta da nutrizionista, psicologo, counselor familiare. Hanno cinque pasti al giorno, via via devono inserire nella dieta tutti gli alimenti, anche i loro cibi “fobici”: carboidrati, dolci. Quando arriva per merenda una nutellina, vuol dire che le cose iniziano a funzionare». Vuol dire tornare alla vita. I dati di guarigione di Palazzo Francisci sono alti. Non ci sono specchi nelle stanze antiche se non uno soltanto, chiuso a chiave. «Chi soffre di questi disturbi ha una dispercezione del corpo. Si vedono enormi anche se atrocemente magre. Lo specchio è la loro ossessione. Specchiarsi quindi, ma con la guida degli psicologi, diventa di fatto una terapia». Già, ma perché ci si ammala? Laura Dalla Ragione sgombra il campo da luoghi comuni, tipo madri fredde o fame d’amore. «I disturbi alimentari sono una nuova forma di depressione giovanile, che si manifesta attaccando ciò che ossessiona gli adolescenti, cioè il corpo. Sulla quale si sovrappone l’altra ossessione occidentale: la magrezza come valore assoluto. Su questo nucleo, che può anche avere un’origine genetica, si inseriscono altri elementi, aver subito un trauma ad esempio, o fattori ambientali, a cominciare dai social e dai modelli di bellezza». Rinunciare al cibo è, però, anche una protesta, il grido di una generazione che non ha più parole per il proprio malessere.
Irene Rosati ha diciotto anni e sta per finire il suo percorso a Palazzo Francisci. È guarita, uscirà presto, si è già iscritta all’università. «Tutto è cominciato quando mi hanno esclusa dalle gare regionali di pallavolo perché secondo loro ero grassa. Ero stata sempre capitana della squadra, voti altissimi a scuola, brava in tutto. Poi è arrivata quella delusione: sono alta uno e 63 ma pesavo 66 chili. Troppi. La mia carriera è finita lì, sulla bilancia dei selezionatori. Quel giorno si è rotto qualcosa. Durante la quarantena la mia malattia è esplosa: senza più la scuola e lo sport il mio unico interesse era il corpo: volevo che diventasse una piuma, volevo un riscatto da quella delusione». Il resto sono anni di cibo buttato, di vomito indotto, di lassativi e di emozioni che si spengono. Irene con coraggio aggiunge: «Sono stata seriamente molestata da una persona che conoscevo bene. Anche per questo ho smesso di mangiare». Eccolo, il trauma. Irene e Rachele, stesse parole. «Qui piano piano sono tornata a vivere. Mangio serenamente. E quando sento l’impulso di liberarmi del cibo riesco a controllarmi. Penso al futuro, all’amore. Non è facile, ma ce la farò».
Stefano Tavilla lo ha fatto per Giulia. È per quella figlia adorata, scomparsa dodici anni fa, che oggi lotta perché ai malati di disturbi alimentari vengano garantite le cure. «Quante giovani devono ancora morire perché la politica si accorga questa epidemia? E dietro quanti suicidi di adolescenti c’erano disturbi alimentari ignorati? Il 10 novembre saremo con il fiocchetto lilla davanti al ministero della Salute, per chiedere fondi, strutture, accesso alle cure. Lo dobbiamo a chi non c’è più, a chi oggi rischia la vita. Io lo devo a mia figlia Giulia».