Corriere della Sera, 23 ottobre 2023
Intervista a Piero Piazzi
Naomi Campbell racconta che, quando è in Italia, sta con lui «24 ore al giorno, sette giorni su sette»; Carla Bruni narra che la madre, quando glielo presentò, «restò esterrefatta dalla sua bellezza ed eleganza» e le disse «dovresti proprio sposarlo». Nei favolosi anni ’90, il mondo era ai piedi delle top model e le top model erano ai piedi di Piero Piazzi, «the king of models» per il New York Times. Scopritore di talenti anzitutto, lui stesso modello, dapprincipio, oggi Piazzi è presidente di Women Management, ha 60 anni e ancora l’allure dei bei tempi, ma di quei tempi non ha nostalgia. «Ho avuto un compleanno di bilanci», dice, «e non solo non rifarei tutto, ma sono più le cose che non rifarei. Primo: non farei il modello ma terminerei Giurisprudenza».
E quindi non sarebbe diventato neanche agente di modelle?
«Avrei preferito essere un avvocato d’ufficio, perché non sopporto le ingiustizie, divento pazzo davanti a qualunque discriminazione. Ma entrai nella moda per uscire da una situazione familiare difficile. Beatrice Traissac mi fermò per strada a 17 anni a Milano, mentre ero in gita scolastica, e questo mi consentì di andarmene da casa. Però, nella moda, ho sempre separato il bello dal futile. Ho passato i primi anni in giro con Valentino o con Gianfranco Ferré, con loro ho visto il mondo, ho imparato tanto».
Un’altra cosa che non rifarebbe?
«Non sarei partito per le Seychelles nel 1991: avevo avuto una storia con quella che, oggi, è mia moglie, ma lei era sposata, decise di riprovarci col marito e io, invece di insistere, partii. Se fossi rimasto, forse, sarebbe restata con me e avrei la cosa che mi manca di più: un figlio».
Il bilancio in positivo, invece?
«Sono fiero di aver fatto pace coi miei traumi di bambino e di come sono riuscito a stare bene nella mia pelle e a sconfiggere tanti fantasmi. Da giovane, sono uscito indenne da situazioni di droghe e alcol. Sei mesi fa ho smesso di fumare quattro pacchetti di sigarette al giorno. Oggi mi sento un uomo che vuole continuare la sua strada con amore, dignità, rispetto e gentilezza».
Che cosa era successo con droga e alcol?
«Non sono mai stato dipendente, ma erano mezzi disinibitori usati da ragazzo per essere accettato, risultare simpatico, per spalancarmi».
I traumi infantili quali erano?
«Sono nato a Bologna da genitori borghesi, i miei fratelli sono molto più grandi di me e io ero l’ultimo, non programmato, non voluto, in una famiglia in cui pure Natale si celebrava nell’anaffettività. Mio padre non c’era; per mia madre, amare era possedere. Sono stato un bambino rabbioso, chiuso. Non giocavo, ero bullizzato dai coetanei; per reazione a tutto questo, facevo la pipì a letto. Intanto, mia madre pretendeva che fossi il più bravo a scuola, il numero uno nello sport, il più bello di tutti».
Doveva pagare il dazio di essere nato?
«Lo racconto non per essere compatito, ma perché ho sistemato tutto. Dopo anni di silenzio, ho perdonato e ho chiesto perdono e ho anche ritrovato mio fratello: mia madre ci aveva messi uno contro l’altro. Però, per tutta la vita, ho convissuto con la depressione e mi è stato attribuito di tutto: il disturbo bipolare, svariate psicopatologie... Conosco la voglia di morire, ho tentato il suicidio coi farmaci».
Perché voleva uccidersi?
«Mi sentivo inutile. Successe a Parigi, da ragazzo. Ma anche dopo il matrimonio abbracciavo il cuscino e speravo di non svegliarmi la mattina. Chiudevo le tapparelle, passavo le giornate a letto. Già da piccolo avevo scritto: perché sono nato in questo mondo? Ma ci sono voluti cinquant’anni per capire che la depressione era dovuta a una dissociazione fra adulto e bambino. Me l’ha diagnosticata un’équipe meravigliosa capitanata dal dottor Furio Ravera. Sono guarito con farmaci e psicoterapia. E con la dottoressa Stefania Sacchezin ho fatto Emdr, una tecnica che riordina i ricordi traumatici. Quando ho ricordato episodi dimenticati dell’infanzia, ho passato giorni a vomitare».
Mentre lei era depresso, però, era anche un uomo di successo, invidiato perché circondato dalle donne più belle del mondo.
«Sono sempre stato bravo a mettere maschere e l’ambiente della moda non ammette sofferenza. Negli anni cosiddetti d’oro, uscivo imbottito di farmaci. Oggi, invece, ho capito che non bisogna vergognarsi della depressione, perché è una patologia come tante altre. Perciò, da poco, sono diventato testimonial di Progetto Itaca, una Fondazione che aiuta chi ha problemi di salute mentale e le loro famiglie».
Per tornare alla vita da sogno, fra le tante top che ha scoperto, chi frequenta di più?
«Mariacarla Boscono è il mio tutto, è il nero, il bianco, il dolore, la gioia, le lacrime, le risate. Sappiamo tutto l’uno dell’altro. Con Naomi, posso ricordare aneddoti e persone che nessun altro ricorda, parliamo la stessa lingua. Poi lei sta al telefono con Beyoncé o con Michelle Obama, il suo è un altro mondo, è una donna molto powerful. Di Carla Bruni sono pazzo, è talmente diversa da quello che può sembrare: tuttora, si meraviglia se uno le fa un complimento».
La prima top model che impose fu Marpessa. Come andò?
«Le sue occhiaie erano un problema per i fotografi, mentre io trovavo che le aggiungessero fascino. Ci misi tempo, ma riuscii a convincere il sistema moda che proprio le occhiaie la rendevano speciale. Ho sempre amato valorizzare donne con dei presunti difetti. Con Mariacarla Boscono ho impiegato dieci anni a far capire che quegli occhi distanti la rendevano qualcosa in più di una semplice modella camaleontica».
Ha trovato e lanciato anche Lea T., la prima modella transessuale.
«Lea mi ha insegnato il dolore di sentirsi dare del travestito, il dolore dell’operazione, e il coraggio di esporsi contro le idee che disapprova».
L’amore per l’imperfezione viene dall’eccesso di perfezione che le chiedevano da piccolo?«Probabile. Pensi che il maestro di pianoforte mi faceva studiare mettendomi le uova fra le dita e non dovevo spaccarle».
Che talento serve per trovare talenti?
«È questione di sensibilità. Per me, un naso pronunciato può essere bellissimo. Amo i dettagli, guardo le mani, le caviglie, considero la bellezza questione di armonia più che di evidenza. Quando vidi Monica Bellucci nel 1987, arrivava da Perugia, non era pronta, ma le dissi subito che era da cinema. Una che poteva fare di più è Eva Riccobono, ma pensa di più alla sua vita, ha due figli bellissimi e va bene così».
Quanto è diventato ricco?
«Zero. Vivo nel mondo dell’essere, non dell’avere. Se avessi voluto, avrei un mio impero, avrei dato il mio nome a un’agenzia e a un franchising di scuole per modelle, ma sono un sognatore e questo non l’ho mai considerato il lavoro della vita. Oggi, mi sento ricco perché ho trovato me stesso. E sono felice di aver portato in questo mestiere dignità, rispetto, gentilezza. Non è scontato, se si vede come sono finiti John Casablancas, Gérald Marie o Jean-Luc Brunel».
Tutti coinvolti in vicende genere #MeToo.
«Io sono stato l’antitesi di tutto e tutti. Ho fatto anche una campagna per vietare le sfilate alle minorenni, perché questo lavoro è crudele: il casting prevede o accettazione o rifiuto e devi avere una struttura psicologica già forte».
Era minorenne anche lei quando iniziò. In che situazione non avrebbe voluto trovarsi?
«Spesso, si ripresentava la scena del cavallo... C’erano stilisti che trovavano sempre difetti nel cavallo dei pantaloni. Ma io o me ne sono andato o gli ho tirato delle pappine: delle sberle».
La cosa più irreale che le è capitato di vedere nel mondo della moda?
«Case di stilisti che non sono case, ma castelli, senza neanche una foglia per terra in giardino».
Quali sono stati i suoi amori famosi?
«Da giovane ne ho avuto uno a Hollywood, ma non dirò il nome, trovo maleducati quelli che parlano di ex. Si può raccontare solo di un grande amore in corso e quello con mia moglie Silvia Giusfredi lo è. Io ho amato solo una persona veramente e ho ricevuto vero amore da una persona sola: mia moglie».
Che cosa l’ha conquistata di lei?
«La semplicità. È una donna che non ha bisogno di abbindolarti, ingioiellarsi, si mette il piumino e va al canile ad aiutare. L’ho conosciuta per lavoro, faceva la Pr, aveva dieci anni più di me e tre figli. Fu un colpo di fulmine. Avevo anche preso una casa a Bali per vivere insieme».
Un po’ scomodo per portarci tre bambini.
«Ma io avevo 29 anni e, quando non hai l’amore da piccolo e poi ce l’hai, lo vivi all’apoteosi. Quando mi disse che restava col marito, fu uno shock. Però le dissi: ricordati che ti sposerò. Quando anni dopo ci siamo rivisti per caso le ho fatto ascoltare le cassette della segreteria telefonica coi suoi messaggi: le tenevo in cassaforte con le sue lettere. Avevo sempre pensato a lei. Da allora, sono passati ventun anni e stiamo ancora qua. Ho un ottimo rapporto coi suoi figli e nipoti. Lei mi ha insegnato tutto dell’amore e molto ho imparato più di recente, amando me stesso».
Oggi, si è dato una risposta alla domanda: perché sono al mondo?
«Forse ci sto perché dovevo capire che tutto gira attorno a una cosa sola: l’amore. Io ho sofferto e ho visto la sofferenza altrui: ho un’associazione che aiuta i bimbi in Uganda; fin dagli inizi dell’Aids, ho lavorato per Anlaids, ho visto morire persone fra le mie braccia perché i genitori si vergognavano di loro. Forse tante cose mi sono accadute per farmi diventare solido, per poter aiutare gli altri, per dare amore».
Quella sul tavolo è l’agenda degli appuntamenti? Non è ancora passato al digitale?
«Preferisco questa perché ci prendo anche appunti e ci scrivo cose che mi piacciono».
Me ne legge qualcuna?«Parole singole: umiltà; perdono. Oppure frasi: ho vinto tanto, ora è giusto che vincano i giovani. E anche: vivere per vincere è da idioti».