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 2023  ottobre 23 Lunedì calendario

Veronesi racconta Panatta

«Gli aerei stanno al cielo come le navi al mare»: é l’attacco di una canzone di Francesco De Gregori, Renoir, contenuta nell’album che s’intitola semplicemente De Gregori, pubblicato nel 1978, al culmine di un quinquennio di strepitosa ispirazione che aveva prodotto gioielli come Alice (1973), Niente da capire (1974), Rimmel (1975), Atlantide (1976), nonché gli album in cui erano contenuti, uno più bello dell’altro. Vale per De Gregori ma vale anche per tutta l’Italia, anzi per tutto l’Occidente: quegli anni, dal 1973 al 1978, sono stati i più ispirati della civiltà di cui facciamo parte – perché per la prima volta si può parlare di un’ispirazione finalmente e veramente collettiva, della quale alcuni musicisti, scrittori, attori, registi, architetti, artisti e perfino qualche politico si facevano interpreti ma che riguardava tutti, e a tutti arrivava grazie a quell’utopia industriale chiamata società di massa.

I versi di De Gregori
Ora è andato tutto a catafascio, e si fatica a crederci, se si è giovani, o a ricordarlo, se si è più grandi, ma c’è stato un momento, cinquant’anni fa – proprio durante quegli anni lì – in cui pareva che grazie alla nuova cultura popolare, e in groppa alla tecnologia galoppante che per la prima volta la distribuiva dappertutto, saremmo davvero approdati a un mondo migliore. Il futuro c’era, in quegli anni, questo voglio dire, ed era meglio del presente, enormemente meglio, perché era definito dalla proiezione nel tempo e nello spazio di quella straordinaria ispirazione collettiva. Bisogna tenere presente questo, e non come sono andate davvero le cose, per inquadrare il personaggio di cui sto per parlare.
Ma torniamo a quei versi di De Gregori, «gli aerei stanno al cielo come le navi al mare». «Come il sole all’orizzonte la sera», continua il testo, perché è una canzone parecchio poetica, ma qui invece noi la continuiamo così: «Come Gustavo allo sci, come Adriano al tennis». Di Gustavo Thoeni abbiamo già parlato, è stato il testimonial dell’ultima vera bellezza italiana della storia poiché se la portava addosso nella danza che si era inventato tra i paletti, rivoluzionando lo sci alpino.

Creava bellezza
Lui, non bello, la bellezza la creava col suo movimento vincente e la indossava con tutti gli accessori che l’industria manifatturiera italiana gli metteva a disposizione. Ma Adriano no. Adriano Panatta era bello, anzi, la bellezza del suo tennis la incarnava e se la portava appresso dovunque andasse. E per quanto fosse una bellezza assolutamente romana, tuttavia non era più soltanto una bellezza italiana, come quella di Gustavo: diventava direttamente una bellezza globale, internazionale, come quella dell’architettura moderna, delle automobili fuoriserie, degli assolo di chitarra di Jimmy Page o delle poltrone di prima classe sugli aerei di quel tempo. Era una bellezza inestinguibile, che resisteva intatta anche fuori dal campo: «Non ha eguali quando suona l’istrumento e non c’è nessuno che gli stia a paro quando non lo suona».

Il bacio del successo
Se n’è parlato troppo poco, della bellezza di Adriano Panatta. Sempre a fare paragoni con Nicola Pietrangeli, sempre a rammentare i suoi successi, sempre a ripetere che forse 10 vittorie in tornei del circuito maggiore sono poche in rapporto al suo talento, ma della bellezza che per un decennio, tramite quel talento, vincendo e perdendo, giocando e non giocando, ha regalato al mondo, di quello non si è parlato abbastanza. Si tratta di una bellezza che dormiva in lui in attesa del bacio che la risvegliasse – e quel bacio è stato il successo. Nelle foto che lo ritraggono da bambino non è nemmeno immaginabile, e anche quando il suo tennis cominciò a farsi dominante, con le due vittorie agli Assoluti in finale contro Pietrangeli, nel 1970 a Bologna e nel 1971 a Firenze, anche allora la bellezza di Panatta non era ancora matura.

Ha accettato se stesso fino in fondo
Perché maturasse occorreva che maturasse quella che, aridamente, molti hanno definito la sua immaturità; doveva cominciare a misurarsi con quella delle ragazze più belle del suo tempo, doveva intridersi della strafottenza e dell’indolenza che gli sono state rimproverate ma che erano parte integrante della sua irresistibile simpatia. Doveva, quella bellezza, nutrirsi dell’indisciplina che allungò proverbialmente i suoi capelli e che lo portava a farsi vedere il più possibile da Belardinelli, suo adorato padre tennistico, ma fascista, con l’Unità o con Paese sera tra le mani. Doveva, quella bellezza, farsi levigare dalle polemiche, dalle sconfitte sorprendenti, dai flirt, dalle notti brave, dai night club e dal jet set (sto usando i luoghi comuni di allora) per diventare veramente unica quando Adriano, ragazzo molto intelligente (anche della sua intelligenza si è sempre parlato poco), ha accettato se stesso fino in fondo, come pochissimi campioni dello sport hanno saputo fare. Accettando se stesso fino in fondo – le proprie contraddizioni, i propri limiti e il proprio destino – Panatta ha reso splendente la propria bellezza come solo Federer, trent’anni dopo, ha saputo fare: Federer ancora più bello come tennista, ma meno bello come uomo – sebbene i lineamenti tamugni di quando era giovane si siano via via sciolti in un’estetica sempre più gradevole. E Federer è un altro dei pochissimi campioni risolti, che di sé hanno accettato tutto.

Giorni di gloria
L’anno di Panatta, indubbiamente, è stato il 1976. È stato in quell’anno che il suo tennis sempre così bello si è dimostrato anche insuperabile. Internazionali d’Italia, Roland Garros e Coppa Davis vinti a modo suo, alternando prestazioni strepitose ad altre sconcertanti. A Roma, al primo turno, rimontando da 2-5 al terzo con Warwick e annullandogli undici match point; a Parigi, sempre al primo turno, annullandone uno a Hutka, poi battuto 12-10 al quinto. Poi, appena diventato numero 4 al mondo, perdendo malamente al secondo turno degli US Open con Bill Scanlon, ma poi, tra semifinale a Roma contro l’Australia e finale a Santiago contro il Cile, trascinando la squadra italiana alla conquista della prima Coppa Davis della sua storia – tuttora l’unica. Un anno così vale tutta una carriera – e quella di Panatta di anni belli ne ha conosciuti molti altri; ma il fatto che questo anno-super sia stato il 1976 è molto significativo, per quello che dicevamo all’inizio.

Il ciuffo vincente
Il 1976, infatti, è forse l’anno in cui l’ispirazione collettiva e la creatività dell’Occidente hanno toccato il proprio apice – il punto più alto di quell’utopia che nel giro di un decennio si è poi trasformata in decadenza. Dall’alto di quell’onda il futuro migliore sembrava proprio di poterlo toccare – e adesso potrei stilare un elenco lunghissimo di opere e imprese che avvalorerebbe questa mia affermazione, dalla fondazione di Apple e Microsoft, in primavera, a distanza di un mese l’una dall’altra, all’elezione di Jimmy Carter alle presidenziali americane di novembre, ma mi trattengo e non lo faccio. Mi limito a citare la cinquina dei film che quell’anno si sono contesi il premio Oscar: Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani, Barry Lyndon, Lo Squalo, Nashville e Qualcuno volò sul nido del cuculo. Secondo me, è proprio questa cinquina la dimostrazione che il 1976 è stato davvero l’Anno della Bellezza nella storia dell’Occidente. E lassù, nella gloria struggente del 1976, nella spuma di quell’onda che di lì a poco si romperà producendo una risacca disastrosa, c’è anche Adriano Panatta, che serve con la testa leggermente inclinata verso sinistra e dopo avere fatto il punto si sistema il ciuffo con la mano.

Davanti allo specchio
Vorrei finire con l’immagine pubblicata qui accanto, la foto ufficiale di Panatta e Solomon scattata all’inizio della finale di Parigi. Guardatela e immaginatevi questa scena – una scena che è Panatta stesso a raccontare, scuotendo il capo per disapprovarsi, e chiosandola dicendo «Nun se fa»: nello spogliatoio del Roland Garros, Panatta si sta sistemando il ciuffo davanti allo specchio prima di scendere in campo. Poco più in là Solomon sta finendo di allacciarsi le scarpe. Panatta lo chiama: «Harold, come right here, please». Solomon lo raggiunge: ora sono entrambi ritratti nello specchio, affiancati, una quindicina di centimetri di statura di differenza, più o meno come li vediamo nella foto. Ma sono nello spogliatoio, e sono soli, prima di affrontarsi nella finale di uno Slam che rimarrà l’unica nella carriera di entrambi. Panatta indica lo specchio a Solomon con un cenno del mento: «Look», gli dice, e con tempismo perfetto, prima che Solomon distolga lo sguardo – via, via, lontano da quell’immagine! – affonda il colpo: «Who do you think is gonna win?».